UN RACCONTO A 34 MANI, NATO DA UN GIOCO SU FACEBOOK.

E finalmente alzò la testa. Aveva passato la notte abbracciata alla tazza del cesso. Finalmente aveva capito che i vent’anni erano ormai passati e ingurgitare un intero sacchetto di arachidi, accompagnato da vodka al melone non era stata proprio un’idea saggia. Beveva per dimenticare, beveva per festeggiare, beveva per passare il tempo. Si sentì bussare alla porta del bagno, era suo marito, comprensivo per quell’immensa tragedia che si consumava in bagno ma impaziente di poter entrare a svuotare la vescica e prepararsi per andare a lavorare. Che vita di merda, si vive per lavorare e nel tempo libero ci si distrugge per non pensare alla vita grama che passa solo per tirar su la famiglia. Si mise in piedi e lasciò il bagno. Ogni odore della casa era amplificato da quella pesante nausea e tutto ai suoi occhi aveva un aspetto irritante e disgustoso.

     Sapeva sin dall’inizio di aver scelto la via sbagliata, di aver percorso una strada senza uscita. Guardava la sua vita scorrere, quasi per inerzia. Eppure sentiva che qualcosa sarebbe cambiato, che non poteva condannarsi a quel costante susseguirsi di ovvietà, di banalità condite con le spezie della routine. Qualcosa la obbligava a rompere quella monotonia, anche se sapeva che non sarebbe stato facile. Le responsabilità, il precetto del dovere, perfino un malcelato senso di colpa la tenevano inchiodata lì, ormai da troppo tempo. Attese che suo marito uscisse per andare al lavoro e crollò a letto, lasciandosi inghiottire da cuscini e coperte. Avrebbe voluto ascoltare della musica, ma la radio le sembrava troppo distante. Così rimase a pensare pensieri troppo pesanti per non lasciare il segno, troppo profondi per non graffiare, troppo rudi per non lasciare cicatrici.

     Il peso di quei pensieri la angosciava a tal punto da non rendere reale ciò che la circondava, tutto le girava attorno in modo a dir poco lisergico e tuttavia si riconosceva in quella totalità, quasi a esserne veramente parte. Sogno o realtà? Il campanello trillò, era sola, il trillo si ripetè, trovò le forze e scalza raccolse la vestaglia e andò ad aprire.
Prima però curiosò dallo spioncino e un’immagine inquietante sfalsata ed ellittica le si presentò, ma incuriosita non chiese chi fosse, tolse il chiavistello girò la doppia mandata di chiavi e aprì.
Lo stupore fu tale che ebbe un mancamento e un attimo dopo si ritrovò fra le ”braccia”, anche se il termine più adatto sarebbe ”zampe”, di quell’essere che, nonostante l’abbigliamento elegante, un doppiopetto gessato fumo di Londra, sembrava più un insetto o un extraterrestre. Era l’alcool? O stava davvero accadendo tutto ciò?

     Lui si presentò in tono gentile, intuendo la necessità di mettere a suo agio l’interlocutrice “Mi permetti? Speranzio Ultimo, vengo da Dreamland. Già, troppe cose da spiegare, faremo un passo alla volta. Ma puoi chiamarmi anche il Cambiasogni”.
Lei lo guardò fisso, per un minuto buono: solo alla fine increspò le labbra come a formare la prima parola. Ma prima che potesse pronunciarla, lui la anticipò “Lo so, lo so. So che avevi sempre sospettato della mia esistenza… eppure ci avevi creduto, da sempre. Riesco quasi a leggere nei tuoi pensieri il modo in cui mi avevi immaginato… tranne qualche particolare, è esattamente quello che sono. I sogni, ecco il punto. Posso fare questo, per te: cambiarne uno. Solo uno, fra tutti quelli che avevi per la tua vita: la maggior parte delle volte i sogni non si realizzano perché sono mal congegnati. Ora guardati dentro, guardali uno a uno: scegline uno e io lo cambierò. Siedi, tranquilla. Abbiamo tutto il tempo che occorre”.

     “Tutto il tempo che occorre? Non mentirmi. Il tempo è una materia preziosa e sento di non possederlo, mi scappa, mi sfugge non riesco a stringerlo, a farlo mio. Chi sei? Che vuoi da me? Perché mi illudi? Sto male e tu non capisci. Non è la nausea o il vomito… è questo grumo che ho dentro, non riesco a scioglierlo, pare granito. Non voglio un sogno. Fammi stare bene! Questo voglio”.

     “Stare bene? Stare bene? O povero me, ogni qualvolta ho a che fare con gli umani sempre la stessa identica storia. Voglio star bene, voglio la felicità. Ma cosa dovremmo fare noi se neanche voi avete mai capito cosa vuol dire stare bene o essere felici? Guardati, sei sposata, avete un lavoro avete i soldi per divertirvi e poi ti lamenti che le giornate sono squallide e ci si ubriaca per dimenticare la routine quotidiana. E se fossi nata a Kabul cosa avresti fatto? Neanche avresti potuto bere per dimenticare di essere costretta a portare il burqa? Voglio essere felice, facile a dirsi. Cosa vuoi, i soldi? Li ho fatti avere i soldi e poi se li sono sciupati in pochi anni, oppure gli è presa la depressione perché li avevano usati per pippare cocaina tutte le sere. Volete i figli, avrete i figli e poi andrete in paranoia perché hanno un raffreddore o perché non sono campioni di calcio. Volete avere potere successo e poi diventate paranoici ché qualcuno ve li vuole togliere. Quindi, suvvia, fai un bel respiro, pensaci e dimmi: cosa vuoi davvero?”.

     Lei restò basita. Sognava? Erano allucinazioni per i postumi della sbornia? Ma che lei sapesse, le sbronze non contemplavano allucinazioni. Forse era quell’idiota di suo marito in uno dei suoi scherzi idioti? Moralismo a buon mercato, ecco di cosa era fatto quell’uomo: risposte facili, soluzioni alla mano per qualsiasi problema, dalla guerra in Africa al tubo da cambiare in bagno. Quello stronzo – perché era inutile girarci intorno: era uno stronzo! – si era costruito una immagine da guru di provincia, col suo misero blog di versi altrui riciclati e delle sue porcate che chiamava poesie a verso libero; lo stronzo l’aveva invischiata nella sua ragnatela anni prima, approfittando delle sue debolezze familiari. Poi, lo stronzo aveva continuato la sua opera con altre sempliciotte. Si era costruito il suo harem di sciampiste sensibili alla poesia e alle ingroppate nei bagni pubblici. Lei sapeva tutto da pochi mesi e, ad ogni sbronza, si odiava perché la sua reazione era quel farsi male con l’alcol invece di fargli male. Sposarsi, ecco il suo più grande sbaglio.
“Cosa vuoi, mi chiedi?” rispose.
“Fammi tornare indietro, Genio in gessato. Fammi tornare al giorno in cui pensavo al futuro”. Il tipo la guardò senza parlare. Poi le venne un mal di testa da scoppiare. Ma non era l’effetto postumo dell’alcol.

     Si risvegliò, ancora abbracciata alla tazza del cesso. Una voce, fuori dalla porta, la chiamava.
Ma non era la voce del fedifrago stronzo. E non era la voce dello straniero vestito a festa.
Le note erano gravi, profonde, pacate. L’odore del vomito si vestì di dolci aromi. Spezie. Quasi piacevoli.
No. Togliamo il quasi. Ebbra di quell’odore portato da una voce sconosciuta ma amica. Un nuovo amore. O qualcosa che, forse, semplicemente, ancora non conosceva.
Sciolse a fatica l’affettuoso abbraccio alla poltrona di ceramica. No. Non erano i postumi dell’alcol.
Le forze non mancavano, tutt’altro. Si sentiva un’altra. Più giovane.
La voce pacata continuava a chiamarla dolcemente, chiedendole se andasse tutto bene.
Si alzò, mise in fila quattro passi e raggiunse lo specchio.

     “Tutto a posto?” udì sospirare al di là della porta. Amica, sì. Forse un po’ nervosa, ma amica.
“….Ehm…certo,  tutto bene…” si udì rispondere.
Solo che  non  tutto era a posto. Non proprio.  C’era qualcosa di strano in quella voce…  Dove l’aveva sentita prima?
Guardò in alto verso la finestrella, sulla quale incombeva la luce della sera. (ma non era mattino?)
Udì bussare ancora: tre colpi piccoli, ruvidi.
“Apri? Mi hanno appena chiamato. È per stanotte: perfetto”.
“…”.
“Non avrai mica paura? Guarda che me lo hai chiesto tu!”.
Troppo concentrata a fissare lo specchio, l’impronta del volto, la luce degli occhi… il  vestito color cartapesta. Da non credersi: era proprio lei quel personaggio che percepiva con la sua coscienza?
Proprio allora si udì il ringhio del campanello della porta. Un suono lungo, seguito da due brevi.
“Sono già qui!”.
Fuori, un cane abbaiava. Dentro, passi. Poi silenzio. Voci, seguite da risate forti.
Si mise in ascolto attraverso la serratura.
“Venite, accomodatevi. Che piacere!.. Ora viene”.
“Ora vengo…”  ripetè, meccanica, silenziosa.
Non saldezza di propositi, ecco il mio problema, pensò. Che cosa mai…?
Ma non fece in tempo a terminare il pensiero che tutto accadde in un momento.

     L’evoluzione è un concetto lineare, ma le dinamiche con cui prosegue hanno degli strappi, dei balzi che definire imprevedibili è dir poco; il tempo è un concetto relativo, per dirla come Fitz è “Il modo con cui l’essere umano percepisce la quarta dimensione”.
Nella sua mente tutto sembrava non collimare, non procedere, come un racconto scritto a più mani in cui nessun autore vuole prendersi la briga di dare una svolta alla trama; tutti a giocare con gli aggettivi e niente azione.
 Si accende una sigaretta, ancora, si congeda dagli ospiti appena entrati con una scusa, il solito vecchio mal di testa, e si infila in camera.
 La tuta aderentissima, nera, in cui i suoi seni paiono voler schizzare fuori, eyeliner nero, gli anfibi, il giubbotto di pelle, i guanti e giù per il pluviale. La moto nel box parte al primo colpo, il motore boxer sornione la porta in un attimo da lui. Al solito bar. 
Attende. Nell’ombra.
 Eccolo che esce per fumare, ancora.
 Lancia una lattina, lui entra nell’ombra e lei mette a frutto la sua lunga esperienza maturata in anni e anni di dojo, a finire a terra indolenzita da interminabili sessioni di Aikido. 
È un minuto di azione, viva e fremente, in cui succede di tutto; lui subisce e si rompe sotto i suoi colpi, le prese, gli arti slogati e doloranti. Percepisce il suo profumo, la sagoma del suo corpo contro quello di lei, maturando il sospetto che sia lei, ma la notte sua alleata la protegge.
 C’è sangue e c’è dolore. 
La moto riparte. 
Si sente malissimo, preda di una furia sfogata che tuttavia le rode l’anima; la sua natura fragile e amabile trascesa per un intero minuto ha seminato lividi e tendini brucianti sul corpo di lui.
“Non lo volevo fare, non lo dovevo fare. L’ho fatto”.
In soli quindici minuti ricompare in pigiama in salotto con un asciugamano in testa dopo la doccia e prepara una moka da sei di caffè, per sé e per i suoi ospiti che l’accolgono rincuorati nel vederla.
Chi era lei? Cosa ci faceva lì, in quel tempo, in quello spazio, in quel mondo? Non lo conosceva, non si riconosceva. Chi era? Cosa era diventata? Gli ospiti continuavano a cianciare allegramente ma lei era distante, persa nei suoi pensieri. Non lo ricordava nemmeno quel sogno in cui era precipitata. Forse era un sogno di bambina, quando infilata sotto le coperte, con le mani nelle orecchie, si estraniava per non sentire le urla dei suoi genitori che litigavano ogni sera, ogni maledetta sera. Ed era scappata presto da quella vita. Da quei genitori freddi, rudi, difficili. Ci aveva creduto anche lei per un momento alla poesia ma era subito precipitata in quella relazione senza passato e senza futuro da cui non poteva, non era in grado di uscire, in quella routine che la faceva stare male. Ma aveva poi senso vivere un’altra vita? Un altro sogno? E se alla fine si fosse rivelato peggiore della realtà che aveva vissuto fino a quel momento? Se quella sbagliata fosse stata lei, semplicemente lei? La sua vita in fondo se l’era creata da sola, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta. Un brivido di paura le attanagliò le viscere:
“Ellie – si senti chiamare da una sconosciuta – sei con noi stasera? Sembri in un altro mondo”.

     Aaazione. Terzo risveglio. Sempre meno traumatico. Sempre più un attacco di panico senza panico. La vita. A tavola, in una qualunque pizzeria di provincia, con questo uomo dai modi gentili, ironico. Uno che non fa niente per impressionarla, però le dà un bigliettino e sul biglietto c’è scritto:
Si sedettero a tavola, uno di fronte all’altra. Le prese le mani nelle mani, ma voleva dire le prendette (purtroppo non trovò il coraggio) e cominciò “Io… Io ti devo dire una cosa… – la guardò negli occhi, abbassò lo sguardo e poi riprese – Io prima della pizza prendo un piatto di patatine fritte”.
E ordinano davvero le patatine… E parlano inaspettatamente per tutta la cena. E molto oltre. Ed è bello. Allora è vero che ci si può denudare con le parole, pensa. Allora è vero che possiamo evitare i soliti discorsi, dire e non dire niente…
E poi un salto indietro a quando era tutto iniziato (ormai era diventata bravissima con lo spazio-tempo). Ed eccola lì davanti ai suoi ospiti, col tacchino, mentre lo sta portando in tavola, farcito e guarnito come si conviene, il tacchino. Ed eccoli, per la prima volta li vede, questa schiera di saltimbanchi, guitti di cartapesta, arrivati e annoiati, repliche di se stessi. Non voglio fare la fine del tacchino, non voglio fare la fine del tacchino…

     E poi ancora un salto indietro, il giorno in cui il suo attuale marito le chiese la mano. Un bellissimo ristorante, con luci soffuse e coppiette innamorate. Lì tutto era romantico, sembrava come se la parola romanticismo fluttuasse nell’aria. Di colpo lui le porse una piccola scatolina e le mancó un battito. A quel punto lui cominciò il monologo “So di essere un uomo quasi sempre indeciso sul da farsi, ma di una sola cosa sono certo: voglio passare ogni giorno della mia vita al tuo fianco. Condividere con te ogni gioia, ogni dolore e ogni problema. Voglio condividere la colazione, voglio condividere il lavandino quando lavo i denti e anche le lenzuola. Tesoro, vuoi sposarmi?”.
Ecco, era quello il momento esatto in cui la sua vita sarebbe cambiata. Era il momento giusto per far cambiare le cose.
Intanto lui attendeva una risposta con il fiato sospeso.
Perché ci metteva così tanto a rispondere?

     Ma veramente voleva tutto ciò?
Un marito romantico che si presentasse al suo cospetto con il diamante per sempre che tutte le donne di un romanzetto d’appendice desiderano? O piuttosto questo era ciò che la società le aveva propinato per anni, preconfezionato nell’ultimo cartone Disney in cui la splendida principessa viene salvata da un uomo meraviglioso, se blasonato tanto meglio?
Sì, ci mise molto a rispondere, perché quell’uomo gentile e premuroso nascondeva, nel profondo dell’animo, quella insidia e, forse, nel prosieguo del tempo, non si sarebbe perdonata una simile leggerezza.
E pur tuttavia il le uscì dalle labbra quasi inconscio, come se un’altra Lei rispondesse al suo posto, quasi a sdoppiarsi osservando quella scena quale terzo incomodo; d’altronde cosa avrebbe potuto volere di più?

     Era un tacchino enorme, in piedi, grande come due persone, con le ali ripiegate in avanti a sostenere un immenso vassoio di metallo opaco, i bargigli mossi  dal vento – forse veniva da fuori, forse da dentro, ma quasi correva – e il grosso becco accuminato incombeva sul ventre di lei, rannicchiata di fianco sul vassoio. Erano in casa in un corridoio molto alto e lungo e si sentivano i gloglottii di tanti altri tacchini venire da dentro, ma non si capiva da dove. Lei era immobile e nemmeno riusciva a muoversi benché non fosse legata,  come fosse parte del vassoio, solidale a esso. Nella posizione in cui era vedeva solo le sue ginocchia. Non sapeva se la stava portando al forno o in tavola. I gloglottii crebbero di intensità, aumentò la luce e si trovò all’improvviso in una sala con tante finestre, fuori il mezzogiorno e si accorse che le sue ginocchia erano gialle e attorno a una tavola tonda coperta da una tovaglia di fiandra, erano tanti ruspanti, grandi come quello che l’aveva portata lì e la stava deponendo col vassoio in mezzo al tavolo.
 Le chiesero tutti assieme “Ci vuoi sposare?” e poi, senza attendere risposta, incominciarono a becchettarla piano piano e poi sempre più forte e lei senza dolore, senza timore andava in pezzi lasciando solo pace al posto di tutte quelle sensazioni, sentimenti e pensieri che le avevano travagliato la vita, era la liberazione dalle catene dell’essere, tutto si spandeva, diffondeva e dissolveva in quei pezzettini gialli sempre più minuti, finché’ non restò più nulla.
Ma i tacchini iniziarono a tossire, sempre più forte e poi in un fetore di mais a rigurgitarne pezzetti e infine a vomitarla in una pozza gialla che ricoprì tutta la tavola.

     Il bello del vomito è che restituisce quello che si è ingurgitato arricchito di fantasia e un mondo in toni di verde, giallo e a volte un indefinito grigio che mette il buon umore. Pezzi grandi e pezzi piccoli, forme indefinite e altre perfettamente riconoscibili. Tutto unito in un brodo di fetidume che, nonostante il sapore avvilente, ha  un non so ché di trionfo liberatorio.
I balzi temporali hanno una caratteristica rilevante:provocano la nausea. Hanno anche un aspetto secondario: sprigionano fame chimica. Questi due aspetti della vita non sono sempre amici tra loro, il più delle volte stridono come un gesso nuovo sulla lavagna mentre si mastica uno stecco di ghiacciolo e ci si morde l’interno della bocca.
Ellie godeva morbosamente dei pezzi che il suo stomaco le restituiva ogni volta; significavano l’ennesimo aggiustamento alla sua condizione di crononauta.
Ricominciare le cose ogni volta, modificando il corso degli eventi le piaceva ma nulla è infinito, tanto meno il tempo e lei lo sapeva bene. I tentativi per rimettere le cose nel giusto ordine diminuivano e il sapore di vomito glielo ricordavano puntualmente.

     “Quindi?” disse una voce che non si aspettava. Si voltò ed era sul divano di casa sua, quella della sua vita originaria, e c’era Speranzio accanto a lei.
“Ma…?” stava per dire. Un conato di vomito la interruppe. Rilassato ma con estrema velocità, Speranzio le porse un secchio.
Dopo averlo usato e respirato a fondo, lo guardò: non sapeva come un alieno insettiforme e del tutto estraneo alle nostre pose e mimiche potesse apparire dinoccolato e sornione… eppure lui era così.
“Ma… dopo tutti i miei salti, proprio qui dovevo tornare?”.
“Non sei mai partita” disse lui.
Dopo una pausa, continuò “Sapevo che non avresti ascoltato il mio discorso, così ti ho fatto vedere le tue scelte e le loro conseguenze. Ora ne sai un po’ di più per scegliere davvero”.
“Una simulazione?”.
“Una specie”.
“Ma non può esserci la certezza che le cose andrebbero così”.
“Diciamo che le probabilità sono altissime; siamo molto avanti in questo settore: hai vissuto un sogno, che è nel nostro campo. Ora…”.
Lo interruppe “Ma la certezza…?”.
“Solo dopo aver vissuto ce l’avrai, e forse neanche allora. Dicevo: ora, vuoi rendere quel sogno realtà? Crononauta per salvare la tua vita? O… vuoi altro?”.
Lei ci stava giusto pensando: correre senza sapere dove non la portava da nessuna parte. Non era sugli avvenimenti che doveva lavorare. Però… “E se avessi bisogno di vedere ancora, prima di scegliere?”.
Lui fece una strana risata, come il verso di una cicala.
“Lo sapevo, non vi basta mai! Ahahah! Carissima, sono spiacente ma il budget per le simulazioni è limitato… hai già avuto più di quel che ti aspettavi, no?”.
“Ma come posso conoscere le conseguenze delle mie altre scelte?”.
“Non puoi. Hai visto com’era la tua vita e come potresti cambiarla agendo d’impulso. È molto”.
Mi sta manipolando? Pensò lei. Se tutto questo gli costa, forse vuole cavarsela con sogni più piccoli.
Eppure… voleva davvero questo? Andare per tentativi in vite che non conosceva, sempre nuove come auto a noleggio, ma mai sue… E oltretutto, come poteva comprendere vite diverse con la stessa testa e anima di prima?
Certo, vivere fuori dalla sua vita le dava altre prospettive. Ma, alla fine, cercando di tornare al passato per cambiare il futuro, voleva solo cambiare il suo presente.
E in quel momento, forse capì: aveva sempre cercato chi le aggiustasse la vita… ma solo lei poteva farlo. E per farlo, doveva aggiustare se stessa. Aveva paura ma sapeva. O credeva di sapere.
Si decise.
“Voglio una vita mia. Che possa capire, cambiare. E capire e cambiare me stessa. Essere padrona del tempo”.
“Sono tante cose”.
“Posso far tutto con una: voglio vivere il qui e l’ora pienamente, con tutta me stessa”.
“Consapevolezza? In questa vita da cui volevi scappare? Però! E coraggio?”.
“Ho visto che ce l’ho, da qualche parte”.
“Ottima scelta. Tra l’altro, mi fa risparmiare parecchio”.
“L’ho scelta a causa tua?”.
“Non lo saprai mai, perché non ci vedremo più. Ma se agirai bene, questo sogno avvererà anche il primo: potrai ancora pensare al futuro. Addio!” e scomparve.

     Lei, di colpo seppe quel che doveva fare. Avvocati, certo, e avrebbe dovuto lavorare per pagarli; ma sapeva che avrebbe potuto trovare tutto ciò che serviva. E poi altro, i suoi viaggi le avevano insegnato molto: corso di arti marziali al volo, fanculo agli uomini almeno per un po’, per iniziare.
In mezzo a tutto quello che aveva da fare, di colpo si chiese se, potendo avere ben altro, avesse fatto la scelta giusta o se avesse ancora agito d’impulso o se Speranzio l’avesse imbrogliata. Aveva caricato l’intero peso della sua vita sulle sue spalle per la prima volta, e l’enormità di quel che aveva fatto la colpì di botto, forte.
Dal terrore le venne un conato. Lo ricacciò. Era un buon inizio.