The rooftop concert 50 anni dopo

di Vincenzo Oliva

 

Non avrei mai pensato di dover suonare per dei comignoli. La lapidaria constatazione di George Harrison alla vigilia del concerto che i Beatles tennero sul tetto del palazzo al 3 di Savile Row, la sede della loro casa discografica, sintetizza in modo esemplare la situazione che si era creata all’interno di un giocattolo ormai irrimediabilmente danneggiato.
Il concerto nacque in maniera alquanto casuale e, sebbene organizzato in fretta e in modo approssimativo, si è trasformato negli anni in un’immagine iconica di quel tempo, un periodo storico per alcuni fin troppo celebrato, ma per altri non abbastanza. Oggi, a 50 anni esatti da quel giorno, ci resta un ricordo sempre più nitido come un’istantanea ammantata da un’aura ovattata, quasi come a proteggere quei venti minuti dal passare del tempo.
Era il 30 gennaio del 1969, con il fragore e la follia di una Beatlemania collettiva lontana solo tre anni che sembravano trenta; all’ora di pranzo, dal cielo plumbeo di Londra Central, insieme al vento gelido arrivò una pioggia di note e di canzoni mai sentite prima, con delle voci che vennero immediatamente riconosciute da tutti. Lassù, in alto, quattro ex ragazzi, ex amici o ex colleghi, ciò che preferite, avevano messo da parte i rapporti interpersonali ormai logori e, per un’ultima volta, si stavano divertendo insieme come non accadeva da tempo, in mezzo a un pubblico, se così si può chiamare, costituito da una manciata di persone che per lo più erano tecnici audio o parte della troupe cinematografica.
Quei quattro che pochi anni prima avevano segnato gli anni Sessanta con le loro note e con il loro vento di novità, erano ormai uomini con una professione (musicisti, businessmen, attori, pacifisti…), comunque non più disposti a continuare una favola durata troppo poco, per sopraggiunti interessi personali, artistici e privati. Pur avendo già scritto la storia, a quei tempi nessuno di loro aveva ancora compiuto i trent’anni. Spinti da Paul McCartney, l’unico a insistere ostinatamente a proseguire, i Beatles si chiusero in sala di registrazione dal 2 al 31 gennaio anziché prendersi una salutare, lunga vacanza che probabilmente li avrebbe salvati dall’agonia.
Il concerto scaturì da quel mese di prove, discussioni e litigi, prima negli studi di Twickenham, appena fuori Londra, e poi alla Apple, mentre cercavano di tirar fuori un nuovo film per soddisfare un vecchio contratto firmato con la United Artists. Il film sarebbe sì uscito, ma un anno e mezzo dopo, con la band oramai disintegrata, insieme all’ultimo album della loro discografia, Let It Be, che conteneva soltanto una piccola parte di quelle prove affidate alla cura di Phil Spector, il produttore americano che si accollò l’ingrato compito di selezionare e produrre le canzoni e il cui operato avrebbe avuto la sua parte nello scioglimento definitivo dei Beatles.
Nel film finirono prove di studio, gag, scherzi ma anche aspri litigi e lunghi dialoghi, principalmente discussioni sulla location più adatta al gran finale prima che venisse scelta la terrazza dell’edificio. Gli ultimi venti minuti della pellicola ci regalavano il concerto, tenuto rigorosamente dal vivo, l’ultimo di sempre dei Beatles assieme, per molti il più amaro e il più bello che, con le sue scene crepuscolari, sancì la fine di un’epoca.
L’intero concerto in realtà durò 42 minuti che furono ridotti a 20 appositamente per il film, e terminò per l’intervento della Polizia costretta a interrompere lo show su insistenza di qualche vicino bacchettone, ed è oggi integralmente conservato negli archivi della EMI ad Abbey Road, sugli stessi due nastri a otto piste con cui furono registrati.
Pur essendo stata ideata solo pochi giorni prima durante una veloce riunione e, forse, ispirata da un concerto che i Jefferson Airplane avevano tenuto un mese prima sul tetto di un Hotel di Manhattan, l’esibizione tra i cieli è stata negli anni omaggiata o imitata da una miriade di cover band dei Beatles e anche da celebrità quali U2, Madness, Red Hot Chili Peppers e altri, e addirittura dai Simpsons, per un episodio in cui Homer, capo della band dei “RE Acuti”, indossa i panni di John Lennon e, sui titoli di coda, proclama la celebre frase: A nome mio e del gruppo, vi ringrazio e spero che abbiamo passato l’audizione (al che qualcuno risponde Questa non l’abbiamo proprio capita!). E non va dimenticato lo stesso Paul McCartney il quale, nella sua insoddisfatta smania di impersonare e far rivivere i Fab, nel 2009 si è esibito per venti minuti esatti con il suo gruppo sulla terrazza dell’Ed Sullivan Theater a New York.

Certamente possono aver dato fastidio ad alcuni, come dimostra l’intervento della Polizia chiamata da qualcuno, ma fu bello, ed è bellissimo ancora adesso.

Questa frase di uno degli addetti ai lavori, un insider della Apple dell’epoca, la dice lunga. Forse perché reduci da trenta giorni burrascosi che non vedevano l’ora di mettersi alle spalle, i Beatles salirono sul tetto inconsapevoli di star scrivendo un altro splendido capitolo della loro storia; invece scrissero, per una volta ancora, una delle pagine più limpide e genuine dell’intera storia del rock.