Fumo di Lady Tora

Mi sono alzato presto stamattina. Mi sono seduto qui, davanti alla vetrata della cucina. Dà sul giardino. Io sono la terza generazione che la mattina guarda l’albero di mandarino, il pero, gli iris selvatici, le calle e le rose da questa vetrata.

Amo sedermi qui e meditare. Sì, dico meditare perché stare col cervello che vaga nel vuoto pare brutto mentre meditare ha un altro sapore, ha qualcosa di alto e, spesso, che va oltre.

Avevo acceso una sigaretta che ormai si è consumata nel portacenere. Ne accendo un’altra e nel mentre accavallo le gambe, mi porto il piede nudo sulla coscia e gioco con l’alluce. Cerco di tirare via i pelucchi dei calzini che si sono incastrati negli angoli dell’unghia. Lo so, può sembrare un gioco schifoso, di quelli che tutti facciamo ma non diciamo, tipo l’ispezione delle narici a caccia di pepite. Ah, quanta soddisfazione dopo l’estrazione di quella che affaticava il passaggio dell’aria!

Questa volta ricordo la sigaretta accesa. La prendo. A differenza di molti amo fumarla tenendola col pollice e l’indice. Forse è un’abitudine sviluppata da ragazzino, quando per fumare mi nascondevo.

Aspiro il fumo. Mi piace la prima sigaretta del mattino, mi gratta la gola, mi affatica il petto, mi ricorda che sono mortale. Strano, vero? Mi piace pensare che un giorno esalerò l’ultimo respiro e spesso penso a come sarà. Se mi capita di immaginarlo durante il giorno, tutto si conclude col pensiero di me che non sarò più. A volte mi immagino in un letto, altre sotto qualche mezzo pesante, altre ancora col ventre aperto, mentre intorno qualcuno si dispera e qualcun altro riprende col suo telefono di ultima generazione, gongolando per il video che diventerà virale e magari non saprà che nel mio ultimo momento di lucidità mi augurerò che di virale ci sia solo la sua fine. Quando mi accade di pensare alla morte prima di dormire tutto cambia. Mi sento un peso sul petto e stringere la gola, mi prende la disperazione e nel mio letto vuoto cerco qualcuno che non c’è. Mi pento di aver scelto la solitudine come compagna di vita, l’angoscia mi prende e mi lecca la faccia con la sua lingua calda mi lecca, mi assaggia e mi tiene fermo tra le sue mani fredde. La immagino l’angoscia, a volte mi sembra di vederla in forma antropomorfa, col suo corpo ingombrante e il suo seno che ti preme in petto fino a soffocarti.

Tra un pensiero e un tiro di sigaretta sorseggio il mio caffè, ormai quasi freddo. Faceva schifo prima, quand’era fumante, figurarsi adesso. È una brodaglia scura al sapore di gomma. Forse dovrei cambiare la guarnizione della moka. Forse. La mia vita scorre con i forse, non faccio altro da sempre.

Forse avrei dovuto scegliere questo e non quello, forse avrei dovuto chiamarla. Forse. Forse.

Forse non mi è bastato vivere una vita da perenne sfigato, bello e maledetto agli occhi di chi mi guarda da fuori. Tremendamente sfigato da me che mi vedo da qui. Dalla poltrona in prima fila, con tanto di portabicchieri per la coca annacquata dal troppo ghiaccio.

Una enorme mosca attira la mia attenzione, sbatte sul vetro. Una, due, tre volte. Caparbia la signora. Non si direbbe che una testa così dura possa ambire alla merda, con quella perseveranza dovrebbe chiedere di più. La merda è per quelli come me, che neanche ci provano a sbattere perché partono dal presupposto che non ce la faranno, quelli come lei dovrebbero cogliere invece i frutti migliori e del ghiaccio per curare i bozzi che si saranno fatti sulla testa. Cosa penserà ci sia in questa cucina di tanto allettante da farla provare e riprovare a entrare? O è solo una questione di principio?

Aspiro l’ultimo tiro della mia sigaretta, la spengo e faccio per alzarmi. Poi mi fermo un attimo. Forse dovrei fare anche io come quella mosca. Provare e riprovare fino a che quella porta chiusa non si spalanchi. Quella porta che non ho avuto il coraggio di sfondare quando mi si è chiusa alle spalle e davanti alla quale non passai più.

Ho fatto sempre così, mi bastava un cenno per andare via e non tornare. Mi bastava sentirmi di peso, un fastidio. Ho vissuto una vita sentendomi un fastidio per gli altri. Per la mia famiglia, i miei amori e crescendo ho deciso che non lo sarei più stato. Agli occhi degli altri sembro una persona sprezzante, una che non si fa coinvolgere e invece non è così. Soffro per ogni addio. Cazzo, se soffro! In silenzio, non come quella mosca. E me ne vado. Torno qui, davanti al mandarino e al pero, che l’inverno si spoglia e dorme profondamente. Torno davanti agli iris selvatici e alle calle che a differenza mia hanno sempre ospiti a far festa nei loro fiori. Torno e guardo il giardino dalla vetrata. La terza generazione che guarda il giardino da qui. L’ultima generazione che guarderà il giardino da qui.