Per non dimenticare

tratto da Quelli erano giorni

di Romeo Vernazza

 

Siamo tutti schiacciati all’interno, c’è appena lo spazio per sedersi, per dormire ci dobbiamo mettere d’accordo con i vicini e addossarci l’uno contro l’altro. Il portellone del vagone è aperto, ci cambiamo spesso di posto per non far prendere troppo freddo a quelli vicino al varco. Sono settimane che non ci laviamo e puzziamo come capre. In più, stipati nel vagone come acciughe, ci tocca pisciare e cagare dentro un buco nel tavolato, in un angolo del vagone, davanti a tutti. Dato che siamo una cinquantina per vagone, il rituale dell’evacuazione è quasi ininterrotto, da mattino a sera. Solo ogni tanto, durante alcune soste in aperta campagna, ci è possibile scendere per respirare e muovere le gambe, sotto il controllo della guardia, con il fucile spianato. L’ordine tassativo è di non allontanarci più di tre metri dai binari, altrimenti lui spara. Man mano che si sale verso nord, verso Zagabria, il freddo, specie di notte, comincia a diventare un problema, superato solo dalla fame, considerato che ci distribuiscono, una sola volta al giorno, una zuppa di cavoli, un pezzo piccolo di pane e una striscia infinitesimale di carne secca.
Giungiamo a Zagabria in serata, è il 12 di ottobre. Qui la ferrovia si divide in tre: il ramo ovest svolta per la Slovenia e l’attraversa fino a Trieste, il ramo nord va verso l’Austria, quello est verso l’Ungheria. Durante la notte, i tedeschi passano lungo il convoglio e chiudono le porte dei vagoni, facendo scorrere la barra di ferro. Siamo rinchiusi dentro come animali, ora. Un fischio prolungato e il treno riparte. Dentro i vagoni sale il trambusto, dopo lo stupore ci sono le urla, ma lo sconforto arriva quando ci accorgiamo che il treno ha imboccato la linea verso nord. Si va in Austria e dopo, probabilmente, in Germania.
Il viaggio dell’incubo prosegue, con lunghe soste e brevi ripartenze, attraversiamo l’Austria, poi entriamo in Germania e si continua ancora e ancora. È impossibile riuscire a descrivere le terribili condizioni in cui, dopo una decina di giorni, arriviamo a Norimberga. Ci accoglie il buio, i binari coperti da un leggero strato di neve. Usciti dai vagoni, come pallidi fantasmi di quello che un tempo eravamo, a suon di calci e urla ci conducono sotto una grande tettoia della ferrovia, posta lungo un binario morto, chi tra noi cade a terra e non si rialza viene picchiato a morte col calcio del fucile; capita a diversi compagni, ormai talmente debilitati che anche la speranza diventa una fatica.
Sotto la tettoia, aperta su tre lati, ci sono diversi mucchi di paglia addossati al muro. È una struttura usata probabilmente per il ricovero del bestiame, l’odore è quello, ci fanno dormire lì. Ci accomodiamo come possiamo, con quella paglia come giaciglio. Tutti addossati uno all’altro, per tenerci al caldo. Io e Goretti siamo vicini anche sotto la tettoia, non ci parliamo più ormai, da giorni. Quasi nessuno parla più, al massimo lancia un lamento, fa un verso o fa rumore quando mangia quella rarità che è il cibo. Siamo ormai ridotti a un gregge di pecore, un organismo collettivo indistinto, le individualità si sono assopite e infine si sono perse nelle funzioni elementari che ci consentono di sopravvivere, senza più alcuna traccia di umanità, ratio, intelletto e ingegno. Se ci abbandonassero lì, sotto quella tettoia, non scapperemmo nemmeno. Chissà se questo trattamento è stato studiato apposta per sfiancarci fino al limite estremo della tolleranza o è semplicemente il risultato della crudeltà e della violenza, lasciate libere come bestie feroci che scappano dal circo. Per fortuna siamo talmente provati che non riusciamo neppure a pensare cosa altro ci possa aspettare, d’ora in avanti, qui, nel cuore della Germania.
La mattina ci ritroviamo tutti coperti da un sottile strato bianco di brina. I due soldati restati di guardia ci fanno segno di alzarci, i tedeschi si sono dati i turni e hanno dormito nel caseggiato di fronte alla nostra tettoia, una specie di dormitorio, dalle cui piccole finestre giungevano i barlumi delle stufe accese. Ciononostante hanno l’aria stanca, loro.
Ci fanno marciare fino a un campo di concentramento, lontano alcuni chilometri, verso una zona poco abitata. Ci fanno alloggiare in baracche affollate e maleodoranti. Entriamo e ci rimescoliamo con tanti altri prigionieri. Le nazionalità sono evidenziate dai diversi colori delle divise, o di quello che ne resta. Ci assembriamo tra di noi così, quasi involontariamente, per affinità cromatica. Ci sono anche civili delle più svariate nazionalità. Si capisce che questo campo è solo un posto di transito e che presto ci smisteranno per mandarci da qualche altra parte. Alla fine del terzo giorno, infatti, in una sera fredda e triste, ci ritroviamo in una spianata fangosa, sotto una luce accecante che ci ferisce gli occhi e stiamo lì, immobili e ordinatamente distanziati per file e colonne, per un tempo indefinibile, mentre sotto una pensilina di lamiera un gruppo di soldati tedeschi armeggia con documenti, registri e timbri. Finalmente un ufficiale, accompagnato da un paio di SS con in mano dei bastoni, si avvicina alla prima fila, sul lato destro. Ordina una serie di comandi e istruzioni che nessuno capisce, ha un frustino in mano, conta le prime dieci colonne, colpendo il primo prigioniero con una frustata sulla faccia, poi fa un segno con l’altra mano, le due guardie al seguito iniziano a abbaiare ordini e a brandire i bastoni. Le prime dieci colonne, un centinaio di persone in tutto, si voltano a destra e cominciano a marciare verso una strada che conduce fuori dal campo, verso la stazione. Durante la manovra, alcuni prigionieri non capiscono cosa devono fare e sbagliano, restando fermi o voltandosi dall’altra parte e scontrandosi tra loro. Sarebbe una scenetta comica se non ci fossero le bastonate e le urla di dolore. La punizione che ricevono quei poveri ragazzi è la più efficace lezione di lingua tedesca mai impartita.

Non bastano i nazisti, non bastano la fame e il freddo, ci sono anche quelle piccole creature del Signore create solo per martoriare i cristiani, perché non vi sia pace in terra. Perché tu possa ritornare dopo dodici lunghissime ore di lavoro in miniera, l’ennesima ispezione serale e poi il giaciglio, solo per porti la fatidica domanda. 
Cimici, pidocchi o pulci?
Questa notte l’incubo sarà probabilmente lo stesso delle notti passate. Le cimici. Nonostante i tedeschi abbiano cercato di sgominarle con aerosol di gas venefici in tutte le baracche del campo, quelle non accennano a morire. Intendiamoci, non lo fanno certo per noi prigionieri, lo fanno per loro, anche loro risiedono al campo e le cimici si spostano ovunque, senza curarsi delle nazionalità. I tedeschi non sopportano queste bestiacce, forse per un esasperato senso di igiene e di pulizia o forse perché non accettano sconfitte, anche se piccole piccole. Da tempo le cimici si sono ricavate dei piccoli rifugi nelle travi, tra le tavole della baracca, ma anche nelle strutture a castello dei letti e la notte escono e come piccoli vampiri ci mordono al collo.
Sono bestie che andrebbero studiate dal punto di vista militare, questi insetti possono sopravvivere per molto tempo, addirittura fino a un anno senza cristiani da vampirizzare. E poi hanno una corazza che si può stirare e gonfiare come una fisarmonica, così riescono a immagazzinare una enorme, per loro, quantità di sangue.
Se le cimici costituiscono la nostra artiglieria pesante, i pidocchi sono la fanteria. Sono una compagnia costante e molto conosciuta, moltissimi di noi convivono con loro da sempre, una vita di teste rasate e pelli escoriate. I pidocchi sarebbero anche una compagnia, un passatempo gestuale, se non fosse per il prurito. Un prurito insopportabile, non ce la fai a resistere, lo senti, il parassita, che ti succhia il sangue, si muove sul cuoio capelluto, senti la sua saliva che ti irrita la pelle. Allora devi grattarti spesso e con vigore, ossessivamente, perdendo altro sangue ed energie. Noi facciamo quel che possiamo per farli morire, quei piccoli bastardi. Ci rapiamo la testa a zero, ci pennelliamo di petrolio fin quasi a intossicarci, bolliamo i vestiti dentro un secchio, li cuociamo tante di quelle volte finché non vengono tutti dello stesso colore, lo chiamiamo il color pidocchio. Ci concentriamo poi sulle cinture, lì dentro si rintanano nelle pieghe, riescono a resistere, non mollano. Un prigioniero, non so come, è riuscito a trovare un pettinino con i denti sottilissimi e ravvicinati. Ora è richiestissimo nella baracca. Lui lo noleggia ogni sera, in cambio di davvero poco, un pezzetto di pane, un’unghia di margarina o piccole cose: un coltellino ritagliato da una lamiera, una cicca, un morbido straccio. E così riusciamo spesso a vincere un sacco di battaglie, anche se per la guerra è tutto un altro discorso. Perché ai pidocchi ogni tanto si accompagna il tifo petecchiale e, se capita, addio a tutti quelli della baracca.
Ma non è finita, perché quando arriva l’estate e ci si può un pochino riscaldare sotto questo pallido sole tedesco, arrivano altri piccoli amici. Le pulci, bestiacce strane, hanno le zampe posteriori sviluppate e fanno salti incredibili, considerato che sono grandi uno, due millimetri. Si sono divise il territorio con pidocchi e cimici, loro preferiscono succhiarti il sangue nelle gambe e nella schiena. Per fortuna sono meno in numero, per cui si riesce a combatterle con onore, sempre con il pettinino e lavorando con le unghie per schiacciarle, e qualcuno arriva persino a mangiarsele, ogni tanto.