Neppure Enrico IV

di Luana Valle

 

Mio padre ebbe un’infanzia difficile. Figlio di N.N., come si diceva allora, e cresciuto durante la guerra. Poco cibo, molto freddo ma tanti parenti e cugini intorno, in una grande fattoria della bassa friulana. E scoppolate in testa dal nonno se a tavola finiva prima il piccolo pezzo di aringa della grande fetta di polenta.
Poi mia nonna venne a Genova a cercare un lavoro e un padre per suo figlio. Lo trovò. Quest’uomo riconobbe mio padre, nel senso che gli diede il suo cognome, probabilmente gesto molto generoso per quell’epoca ma era un violento e un alcolista e mio padre, per molti anni, fu chiuso in collegio.
Non so che collegio fosse ma era di suore e in quell’ambiente maturò la sua avversione per la religione. Forse il minestrone coi vermi che gli versavano nella scodella la sera, forse il bastone che la suora nascondeva sotto il mantello, forse il fatto che lo portavano a piangere ai funerali dei ricchi genovesi o forse perché la madre superiora si portava nel letto il suo più caro amico. Forse tutto questo insieme e altro ancora che non ha mai raccontato.
Poi uscì dal collegio. Da ragazzetto fece il fornaio e a 16 anni si comprò, con i primi soldi guadagnati, il manubrio di una bicicletta da corsa. Era un appassionato di ciclismo come tutti gli italiani di allora, divisi fra Coppiani e Bartaliani. Naturalmente lui era un tifoso del grande Fausto.
E poi, finalmente, venne la bici, usata, e cominciò ad allenarsi.
Intanto aveva conosciuto mia mamma e frequentava la sua casa. Mia nonna gli cucinava gigantesche teglie di lasagne e per ripararlo dal freddo invernale – il giornale sul petto proteggeva poco – con un nylon che ricopriva i materassi gli aveva cucito un’improbabile giacca antivento e antipioggia.

Pedalò per un paio d’anni come un pazzo e a ventuno anni superò le selezioni Olimpiche di inseguimento su pista.
Sarebbe andato alle Olimpiadi di Roma. Un sogno.

Un sogno mai realizzato.
“Mamma, perché papà non è mai andato alle Olimpiadi?” chiesi a mia madre un giorno di molti anni dopo in cui eravamo sole. Non so perché ma c’era qualcosa di non detto intorno a questo fatto, qualcosa di cui in pubblico non si doveva parlare.
Mia madre stava lavando i piatti, si tolse i guanti, si appoggiò al lavello della cucina, fece una piccola pausa, forse chiedendosi se fossi abbastanza grande per capire, e rispose “Non è andato alle Olimpiadi per non dover baciare la mano al Papa”.
Ricordo che lì per lì pensai “Ma cha cavolata! Avrebbe realizzato il suo sogno, avrebbe potuto avere una vita diversa: soddisfazioni, benessere, una casa più grande…”.
Non ero ancora abbastanza grande.
Poi sono cresciuta e ho cercato di essere come lui, coerente e onesta, di non accettare compromessi, di non rivolgermi a nessuno e di cercare in me le risorse e le risposte. Almeno ci provo.

Ricordo che il giorno prima di morire, era ricoverato all’Hospice, un frate entrò nella sua stanza per portargli un po’ di conforto ma lui, che non parlava quasi più, gli fece un inequivocabile cenno con la mano e non gli diede modo di avvicinarsi.
Pensai che per qualcuno neppure Parigi val bene una messa!
Lo accarezzai e sorrisi.

Ormai mio padre è morto da qualche anno, lo penso spesso, e vivo senza dio, come mi ha insegnato lui. Talvolta mi sono sentita persa per questo, ma più volte mi sono sentita forte.
E per questo lo ringrazio ogni giorno.