Le cicale in novembre

di Antonio Scardino

Mi hanno arrestato una mattina assolata di Novembre, dalle parti dell’hotel Hilton di Şanliurf (Anatolia Sud Orientale).
Avevo parcheggiato il furgone con agganciata la roulotte in una strada condivisa dall’Hotel e dal centro commerciale Piazza, per fare alcune compere e portare i vestiti alla lavanderia di Mehmet, dove avevo una sorta di abbonamento quindicinale per rinfrancare lo scarno guardaroba mio e della mia famiglia. Ero solo. Tre giorni prima avevo accompagnato mia moglie e i miei figli all’aeroporto di Şanliurfa, destinazione Roma via Istanbul; quella mattina il nostro amico Akan ci aveva avvertiti del fatto che eravamo, in qualche modo, sotto osservazione da parte della polizia turca. In effetti, ci eravamo accorti che un furgoncino con i vetri oscurati appariva regolarmente ovunque fossimo, a Suruç e a Şanliurfa. Decidemmo così di andare all’aeroporto verso mezzogiorno, con la roulotte. Facemmo i biglietti allo sportello della Turkish Airline, il solo aperto, per il volo che partiva alle diciannove per Istanbul, dove li attendeva il volo per Roma, aeroporto Leonardo da Vinci, arrivo a mezzanotte circa ora locale. Attendemmo il momento dell’imbarco riposando e cucinando dentro la roulotte, nel parcheggio dell’aeroporto. Fu un mio piacere particolare fare la doccia a tutti e tre i miei bambini e poi lavare i capelli a Giulia, nel bagnetto attrezzatissimo della nostra casetta con le ruote, dopo aver preparato una merenda che assomigliava più a una cena fuori orario, a base di Bulgur, cipolle e piselli. Alle diciotto e venti li ho visti sparire oltre il metal detector del gate, dentro un corridoio pieno di gente. Ho atteso nel parcheggio di vedere le luci dell’aereo alzarsi in volo nel nero della notte stellata, direzione Istanbul. All’uscita dell’aeroporto mi ha fermato la polizia per i documenti e domande di ogni genere in inglese, in tono cordiale, poi mi hanno lasciato andare. Il furgoncino bianco con i vetri oscurati era lì ad aspettare, vicino all’ingresso. L’aereo era ormai lontano nel cielo quando rientrai a Şanliurfa, attraversandola, verso i quartieri popolari appena fuori la città, sulla strada per Göbekli Tepe. I fari del furgoncino bianco rimasero negli specchietti retrovisori per un tratto prima di sciogliersi nel traffico e dentro alle mille luci della città, che a un tratto sembrò finire per riapparire sul ciglio della strada con alcuni negozi e le capanne improvvisate dei venditori di meloni e tè. Uscii dalla statale svoltando a destra, verso un piccolo quartiere dalle strade sterrate che sorgeva attorno a una moschea; un posto che conoscevo già, nel quale avevamo pernottato settimane addietro. Parcheggiai accanto a un forno in piena attività, vendeva Ekmek caldo e peperoni grigliati a una piccola fila improvvisata di bambini e madri di famiglia dal velo colorato. Mi parve di vedere il furgoncino passare e sparire dietro a un angolo, ma forse l’avevo solo immaginato. Mangiai del pane inzuppato nell’acqua e condito con olio, aglio e pomodori e mi stesi per un po’ sul letto, protetto in quella mia cara tana con le ruote; avevo già il cuore gonfio di nostalgia per la mia famiglia e allo stesso tempo un leggero senso di sollievo, per il fatto che fossero al sicuro, lontano. Mi resi conto quella sera di quanto fossi stanco.
Avevo trascorso la mattinata a Suruç a cercare di organizzare un invio di pacchi di farmaci attraverso la frontiera e un permesso per me, per adare a Kobanȇ durante l’apertura eventuale di un corridoio, in settimana. Guardavo fuori le luci giallastre e fioche, ascoltavo le voci indistinte delle persone che rientravano alle loro case e il rumore delle poche auto che passavano. Mi svegliai che era notte fonda. Accesi il telefono, segnava le tre e venti; un sms di Giulia con un ‘sorrisino’ avvertiva che erano a casa di mia madre, a Roma, e preparavano i letti per i bimbi. Risposi con un ‘sorriso’.
Decisi di fare un giro per cambiare posto, accesi il furgone e presi per la statale. Guardavo gli specchietti retrovisori in continuazione: nessuno. Le luci della città in fondo allo stradone illuminato, qualche auto sporadica; davanti alla capanna dei meloni, il venditore dormiva su una specie di triclinio guarnito da un tappeto, il braccio sugli occhi, il Poshu arrotolato sulla testa, si era coperto con una sorta di plaid. Rallentai per guardarlo meglio: giaceva lì, sul ciglio della strada, su quell’asfalto pieno di detriti che è appena al di qua del marciapiede, rivolto coraggiosamente verso le auto che arrivavano, protetto solo da quella copertina colorata. Scesi ancora verso la città ma, prima di entrarvi, feci inversione e tornai al mio quartierino ospitale; cambiai posto, però. Nessuno sembrava seguire quelle mie strane traiettorie.
Dormii fino a quando, aprendo gli occhi, potevo vedere il sole potente spingere da dietro gli scuri e filtrare con lame di luce, che colpivano le pareti interne della roulotte. Dopo un tè forte mi sbarbai e mi lavai per andare a Suruç. Il sole era già accecante.
Le tende dei campi profughi appena fuori la città mi diedero il loro buongiorno polveroso e flemmatico: tutte uguali, grigie, rigorosamente sistemate in modo geometrico dentro un enorme recinto di filo spinato che finiva solo in un varco non sorvegliato, aperto sulla strada. Qualcuno aveva tentato di costruire un puerile ingresso alla propria tenda con delle maioliche o dei mattoni sistemati a terra alla buona. I panni colorati stesi ad asciugare erano l’unica nota di colore. Lasciai due borse piene di vestiti e scarpe, le cose dei miei figli e di Giulia, i giochi. Volevo liberarmi di tutto. La donna che mi venne incontro ricevette le borse con uno sguardo grato e dignitoso, duro; quando mi fu davanti mi guardò negli occhi e ringraziò dicendo sepas… solo dopo sorrise e mi offrì di seguirla per prendere il tè con la sua famiglia. Accettai volentieri. Aveva preparato Ekmek alle cipolle e peperoni, si scherzava a farmi assaggiare i Biber piccantissimi, che mi facevano lacrimare, per vedere quanto resistessi; bevvi molto tè, fumai una sigaretta arrotolata da lei. I suoi sei figli giocavano, mangiavano, facevano chiasso attorno a noi, seduti a terra. Il figlio grande e il padre tornarono dal lavoro apposta per mangiare con noi. Lei soffriva di mal di testa, mi fece capire a gesti. Uno dei figli tentava talvolta qualche parola in inglese presa dal traduttore di google del suo smartphone. La visitai lentamente, con pazienza, davanti a tutti i componenti della sua famiglia; le prescrissi alcune cose, le diedi dei farmaci che avevo nella borsa. Quando salutai, fuori era pomeriggio inoltrato.
Passai al centro Amara per vedere di trovare qualcuno disposto ad aiutarmi per il nuovo invio di farmaci, ma non c’era nessuno. Mi trovai un posto per riposare e passare la notte, sulla strada per Kobanȇ, appena fuori Suruç. Scelsi uno dei posti nei quali avevo già dormito varie volte con Giulia e i bimbi, tutti sapevano chi fossi. Come sempre, i bambini bussavano incessantemente alla porta della roulotte, giocavano con gli ingranaggi del gancio di traino, i vecchi li scacciavano redarguendoli, io facevo finta di non essere lì. A sera, qualcuno bussò insistentemente alla porta: era il piccolo Sîrwan, aveva con sé un piatto con del Bulgur alle verdure e un dolcetto; mi porse il piatto, sorrise, mi chiese se volevo bere del çai facendo il segno del pollice che entra nella bocca; feci no con la testa e lo ringraziai dicendo sepas dentro un sorriso, attorno a una carezza. Si mise una mano sul cuore chinando il capo in segno di comprensione, abbassò gli occhi e se ne andò. Io e Sîrwan eravamo diventati definitivamente amici il giorno che mi aveva portato a passeggio lungo i sentieri fra i campi coltivati dalla sua famiglia, proprio dietro quella strada dove mi piaceva parcheggiare; coglieva delle strane melanzane e le apriva in due, facevamo un pezzo per uno: sembrava di mangiare un frutto tanto erano dolci; poi coglieva i meloni. Passeggiavamo e mangiavamo. Mi spiegava come mangiare i semi delle zucche e raccontava di quella terra. Io non so una parola di curdo, ma capivo e non saprei spiegare il perché. Rispondevo in italiano… Eravamo amici.
Quella notte mi svegliarono alcuni colpi di mitragliatrice leggera che echeggiavano in lontananza, con differenti toni, quasi dialogassero. Durò poco, qualche minuto. Richiusi gli occhi e attesi il mattino; ripensai a quante donne soffrissero di un’emicrania invincibile, che negli ultimi tempi aveva colto anche Giulia; fuori mi faceva compagnia la luce fioca della scuola, una finestra illuminata in un palazzo distante e il frinire delle cicale. Addormentandomi pensavo a come fosse buffo ascoltare il frinire delle cicale in Novembre.
Fra una cosa e un’altra, un paio di giorni trascorsero leggeri, fra varie faccende: la manutenzione ordinaria della roulotte, gli scambi di sms con Giulia, che mi raccontava un po’ quello che facevano a Roma.  Ma l’atmosfera in città era tesa… ed era strano visto che le elezioni politiche erano oramai passate e i combattimenti pesanti con Da’esh si svolgevano cento chilometri più a Sud. Quella mattina era iniziata come le altre: un tè forte e qualche biscotto da inzuppare e poi la barba da tagliare e i vestiti da scegliere: i gesti mattutini che mi ricordavano quello che era rimasto di me. Scrissi un appunto, quello che dovevo fare, le cose da approntare, i documenti per il momento dell’apertura del varco per Kobanȇ; mi appisolai ancora una mezz’ora. Al mio risveglio presi il furgone e invece di andare a destra, verso il centro del paese e quindi verso la statale, voltai a sinistra, sulla provinciale che dopo cinque chilometri di percorso porta a Kobanȇ. Nella radio una nenia curda, dolce e melodiosa. Adoravo quei campi coltivati fra le stoppie bruciate, le casette rade sparse qua e là, che sembravano contemplare la piana sconfinata e lucente che si estendeva a perdita d’occhio in ogni direzione che non fosse Kobanȇ, sullo sfondo.
Guidando su quella strada si deve passare davanti a un avamposto dell’esercito turco, stretto nella morsa del filo spinato, dei sacchetti di sabbia, oltre i quali si intravedono gli occhi delle sentinelle impaurite sotto i loro elmetti marroni. Arrivai fino al confine: davanti al muso del furgone le prime case di Kobanȇ, ma la provinciale era chiusa da una puerile linea fatta di barriere di metallo, di quelle con quattro cavalletti che in Europa si mettono a difesa di un tombino malandato o fuori degli stadi per fare la coda alla biglietteria; solo che qui, da un lato e dall’altro di quel cancelletto, per duecento metri ci sono carri armati pronti a fare fuoco e militari turchi in assetto di guerra che ti guardano immobili, silenziosamente da dietro le mitragliatrici pesanti montate sulle torrette dei carri. La cosa buffa è che oltre questi duecento metri difesi strenuamente, in modo persino teatrale, tutti sanno che il nulla divide lo Stato turco da quello siriano: solo una linea immaginaria, fluttuante, disegnata in nero sulle cartine geografiche, forse, ma in realtà null’altro che un ondeggiare lontano della terra riarsa sotto il sole accecante. Dall’altra parte della barriera che avevo di fronte, Kobanȇ sembrava quieta, silenziosa e indifesa; si poteva immaginare l’affaccendarsi quotidiano delle donne, qualche forno aperto fra le macerie, le piccole gioie, le ricostruzioni laboriose e lente fra le polverose rovine prive di acqua ed elettricità. Pensavo a quell’ospedale che la gente sta ricostruendo a mani nude. Pensavo a Karl e ai suoi amici muratori ed elettricisti arrivati dalla gelida Colonia, a gruppi di cinque operai, a rotazione, quindici giorni di ferie per gruppo, per rifare due piani dell’ospedale dove forse un giorno, finalmente, lavorerò anch’io, invece che dentro il mio furgone, allestito per trasportare qualche cartone ricolmo di medicinali e per fare qualche visita alla buona.
Retromarcia… poi inversione; torno verso Suruç per agganciare la roulotte e riprendere la statale verso Şanliurfa: dovevo passare da Hamdi e suo figlio Kenan per vedere se avevano rimediato una centralina elettrica e per cambiare dei fusibili del furgone visto che, quando la roulotte era agganciata di notte, non si accendevano più le luci di posizione e le frecce.
Li guardo mentre lavorano, bevo del tè offerto dal loro apprendista bambino; arriva l’ora di pranzo, si mangia Ekmek e i peperoni arrivati caldi in una teglia, tutti assieme, attorno a un tavolino dell’officina; si beve ancora tè. Hamdi mi prepara un panino con le sue mani di lavoratore, evidentemente impietosito dalla mia difficoltà nello scegliere e arrotolare nell’Ekmek le giuste dosi e proporzioni. Buonissimo… Si parla dei figli e del perché della guerra contro i curdi, ognuno nella propria lingua. A un certo punto mi chiamano per mostrarmi che ora tutto funziona, facciamo le prove, si ride. Chiedo di pagare le loro lunghe ore di lavoro, mi vengono chieste ottanta lire turche; ne lascio centocinquanta. Mentre vado via, vedo Hamdi che prega, inginocchiato su un tappetino colorato, in un angolo dell’officina immobile e silenziosa nonostante altri clienti attendano il loro turno; sta ringraziando per aver potuto compiere il suo lavoro fino in fondo, con successo e per i soldi che ha ricevuto, per quella giornata che è stata così buona. Vado via contento, direzione hotel Hilton Garden Hill.
Sapevo dove parcheggiare, una stradina che dalla stazione dei taxi della piazza scende lungo il fianco dell’hotel verso il centro commerciale Piazza. Lascio lì furgone e roulotte e vado alla tintoria con le borse dei panni da lavare. Torno dopo un’ora circa. Sto per mettere la chiave nella serratura della porta della roulotte quando improvvisamente qualcuno apre da dentro: un ragazzo con la camicia a quadretti, la barba corta e ben curata, una pistola nella mano puntata verso le mie gambe. Sono talmente sorpreso che non riesco a dire una parola. Mi volto e vedo gente armata scendere da due furgoni parcheggiati lì vicino, che noto solo in quel momento. Sono tutti giovani vestiti in modo qualunque. Mi sono attorno, pistole alla mano. Alzo le mani, abbozzo un sorriso. Uno di loro tira fuori le manette, ma un tizio in giacca e cravatta spunta fuori da un’auto con una radiolina in mano e ringhia qualcosa. Le manette vengono riposte. Qualcuno di loro mi guarda fissamente, silenziosamente e solo in quel momento immagino quanta adrenalina scorra nelle loro vene, quante notti insonni, quanta immaginazione attorno alla mia persona e al furgone e alla roulotte. Un italiano che fa avanti e indietro con il confine siriano e dorme per strada, ogni volta in un luogo diverso e che, cosa peggiore, aiuta i curdi. In quel preciso momento faccio riferimento a tutto ciò che ho nel bagaglio culturale personale per cercare di far capire che non c’è esplosivo, non ci sono armi, non sono un terrorista. Perché è questo che immaginano loro e lo realizzai solo nel momento in cui vidi i loro sguardi decisi, puntati su di me. Bisognava che stemperassi quella tensione a tutti i costi, prima che degenerasse. Iniziarono a chiamarmi Antonioni Scardoni e ridevano fra loro, qualcuno iniziò ad azzardare delle gran pacche sulle spalle. Ho dovuto fare appello a quello che sono, al quartiere dove sono nato, alle amicizie che ho avuto, alle esperienze che ho fatto, ai miei gradi di ufficiale dell’esercito in congedo per poter tranquillizzare i loro animi e allo stesso tempo creare un alone di rispetto attorno a me. Non mi hanno percosso o peggio perché è venuta fuori la gente da ogni angolo: dall’albergo, dove avevamo soggiornato con la mia famiglia i primi tre giorni che eravamo arrivati a Şanliurfa; i tassisti, con i quali avevamo parlato e scherzato quando ci portavano al mercato vecchio; il personale del ristorante che è lì di fronte, nel quale abbiamo mangiato più volte, che hanno giocato con i nostri figli chiamandoli fistik; le guardie giurate e i commessi del centro commerciale Piazza, con i quali avevamo più volte parlato, che sapevano chi fossimo, da dove venivamo e perché. Si era creato un cordone umano attorno a quello della polizia, una sorta di cerchio curdo attorno ai rappresentanti dello Stato turco. Discutevano fra loro, chi si offriva di fare da traduttore, chi spiegava chi fossi io e che cosa fossi venuto a fare da quelle parti.
Credo che questo abbia svolto un ruolo decisivo sulle modalità dell’arresto. Mi portarono comunque alla centrale e lì un funzionario che parlava inglese mi spiegò che per le leggi antiterrorismo potevano tenermi quarantotto ore in cella senza il permesso del magistrato. Era molto cordiale e affabile, ma continuava anche lui a chiamarmi Antonioni Scardoni e rideva con gli altri poliziotti. Ho avuto solo delle gran pacche sulle spalle, sono stato trattenuto quattro ore al commissariato, mi hanno preso le impronte digitali e fatto un milione di domande. La più marcante per me è stata quando mi hanno chiesto perché aiutassi dei terroristi. Dissi che aiutavo chiunque avesse bisogno, ma per loro non fui convincente.
È andata bene, tutto sommato.
Alla fine mi hanno fatto firmare un foglio scritto in turco; solo dopo, con l’aiuto di amici, ho potuto capire che era una mia dichiarazione di furto da parte di ignoti di vari oggetti di mia proprietà. Quando tornai alla roulotte era ormai sera. La trovai aperta e così anche il furgone. Le borse svuotate, gli sportelli degli scaffali spalancati e qualcuno anche rotto, tutti gli oggetti sparsi sui letti, sui fornelli, sul pavimento. Al furgone avevano rotto un vetro per entrare e la mia borsa di medico era stata aperta e tutti gli strumenti sparsi ovunque.
Erano spariti il mio telefono, il mio computer portatile, la macchinetta fotografica e, quello che è peggio, il mio passaporto.
Era tutto nella dichiarazione firmata, nella quale era stato messo per iscritto che questi quattro oggetti mi erano stati rubati. Un lavoro molto raffinato per sbarazzarsi di qualcuno, devo ammetterlo. Una lezione. Un’espulsione leggera. Mi è stato dato un avvertimento preciso: chi aiuta i curdi è nostro nemico e rischia grosso. Misi in ordine quello che potei, andai alla reception dell’albergo a chiedere di poter telefonare. Chiamai Giulia in Italia, non raccontai nulla, dissi solo che avevo perduto il telefono e di non preoccuparsi se non mi avesse sentito per un po’. Mi raccontò rapidamente dei bambini. Ridemmo. Quando riappesi il ricevitore ebbi i saluti affettuosi del personale dell’albergo: ci avevano visti pranzare con i bimbi, fare il bagno nelle piscine riscaldate del sottosuolo; la cosa più commovente fu che uno degli impiegati della reception fece mettere per iscritto ai poliziotti che sarebbe stato lui il referente da contattare in caso di ritrovamento dei miei oggetti, visto che io non avevo più telefono e problemi con la lingua. Mi chiesero di restare per la notte o almeno di dormire parcheggiando la roulotte nel retro dell’hotel, dove c’erano le telecamere; ringraziai rifiutando. Dentro di me sapevo che il luogo più sicuro era il mio quartierino popolare dalle strade polverose e buie, appena fuori la città, dove i pizzaioli erano aperti fino a tardi e un venditore di angurie dormiva in strada e nessuno mi avrebbe toccato.
Ho dormito con un occhio solo cercando di razionalizzare la rabbia, la violenza che avevo ricevuto, l’ingiustizia di ciò che stava capitando. Nel concreto, ero ormai solo e senza documenti. Decisi di andare al più presto al consolato italiano e chiedere un nuovo passaporto.
In tre giorni sono arrivato a Istanbul, passando per la Cappadocia. Ho dormito nei parcheggi con i camionisti, mi svegliavo che era buio e guidavo fino a quando mi si incrociavano gli occhi dalla stanchezza. Dalle parti di Konia vidi un’automobile con il cofano aperto e due uomini che si sbracciavano. Mi fermai. Il più giovane mi disse in un inglese stentato che erano greci e che la loro carta di credito era esaurita, non potevano mettere benzina. Mi chiese cento lire turche, pensai che forse era un trucco eppure gliene diedi duecento. Eravamo in mezzo a una specie di deserto privo di vegetazione e martellato da un vento teso, un paesaggio costellato di antichi crateri vulcanici e piccoli laghi color porpora. Il greco vide i soldi e rimase esterrefatto; in un sussulto di gratitudine e gioia si tolse l’anello d’oro massiccio che aveva al dito e me lo diede. Disse che era l’anello del suo matrimonio. Lo restituii, me lo lanciò nel furgone attraverso il finestrino aperto. Da allora lo porto all’anulare della mano destra, che a quello della mano sinistra c’è la fede del matrimonio mio con Giulia; io che solo dieci anni fa non avrei portato mai alcun anello al dito, che credevo mi facessero orrore.
Quando arrivai al consolato di Istanbul mi dissero a brutto muso che non avevo testimoni di quanto raccontavo, che forse stavo inventando tutto, che non potevano fare passaporti nuovi e che dovevo andare in Grecia e imbarcarmi per l’Italia al più presto.
Al confine fra Turchia e Grecia i poliziotti mi hanno fatto raccontare la storia daccapo e firmare un foglio in turco, poi una perquisizione corporale, quindi hanno passato il furgone e la roulotte ai raggi X, smontato la plancia del furgone e fatto salire i cani antidroga. Dopo tre ore circa si alzò finalmente la barriera con la Grecia e dall’altra parte un agente greco di polizia di frontiera mi fece stancamente segno con la mano di passare.
In Grecia sembrava di essere in paradiso. Al primo posto di sosta per auto mi sono lavato, ho mangiato un panino e ho dormito quattro ore. A sera ero ad Alexandropouli con una carta telefonica a raccontare tutto a Giulia da una cabina pubblica. Giulia e i bimbi mi hanno raggiunto a Salonicco, quattro giorni dopo.
Ora siamo ad Atene… Al consolato mi hanno detto che dovevo tornare in Italia con la carta d’identità imbarcandomi a Patrasso. Poi mi hanno offerto un foglio di via per i paesi balcanici. Dopo un’ora circa e infinite discussioni durante le quali cercavo di spiegare che la mia vita si svolgeva al confine turco-siriano e che era aberrante che tornassi in Italia solo per fare un documento, abbiamo patteggiato, molto a fatica e malvolentieri da parte loro, che si sarebbero informati presso la prefettura e mi avrebbero mandato una mail per dirmi se potevo tornare da loro per avere il passaporto. Quando? Non si può sapere… Forse quindici giorni, forse un mese, forse mai…
Aspettiamo in un campeggio dalle parti di Kalamàta. I bimbi fanno il bagno, noi pure, quando è abbastanza caldo. Un novembre straordinario…
I miei amici di Suruç hanno saputo quanto era accaduto e mi hanno tempestato di mail e telefonate. Il ministro della salute curdo mi ha offerto un posto stabile al nuovo ospedale di Kobanȇ, un parlamentare curdo si è offerto di chiedere un’interrogazione parlamentare per avere spiegazioni sul comportamento della polizia turca nei miei confronti.
In questo momento sono difeso da uno Stato che non esiste ancora e sono ignorato dalle istituzioni del mio paese di origine.
Mi sento confuso, provato e mi godo la vacanza in Grecia, che in questo momento mi appare un immenso luogo di pace e bellezza. Moltissime emozioni, pensieri, idee e ricordi lentamente prenderanno il loro posto sedimentando pazientemente, che adesso è ancora tutto troppo vivo in me; con il passare dei giorni, qualcosa lentamente si intravede nella nebulosa del vissuto e diventa un poco più chiaro dentro me: credo proprio di amare la gente… di adorarla perfino; credo che qualcosa di profondo e indelebile mi leghi a quelle terre nelle quali ho recentemente vissuto, lavorato e amato, seppur per un periodo apparentemente breve; credo sempre di più all’inconscio collettivo e ai suoi segni, anche se non saprei dire come e perché; so di sopportare sempre meno i governi e le ambizioni di dominazione che essi portano con sé; detesto i guerrafondai, la noia e la tristezza delle loro esistenze prive di speranza.

Tornerò a Suruç il prima possibile, questa per ora la sola cosa davvero chiara in me.