Le braccia forti di papà di Mario J. Camilletti.

Racconto tratto dalla raccolta L’ordine naturale delle cose

Il respiro del bambino sembrava regolare. Nella stanza bianca e silenziosa, la luce tenue del lumino sopra il letto nascondeva con pietà il groviglio di tubi a cui quel piccolo corpo era attaccato. L’uomo seduto, o forse dovrei dire abbandonato, su una sedia, scomoda come sanno esserlo solo le sedie degli ospedali, perché lì non ci si siede per riposare ma per aspettare e sperare non solo che il tempo passi più veloce di quanto non sia, ma anche che porti tempi migliori, lo guardava con apprensione e speranza. Perduto nel suo dolore e nel suo maglione troppo largo, quell’uomo guardava suo figlio cercando un segno, un movimento, un indizio, quasi fosse un detective, che gli rendesse possibile capire il futuro. La macchina a fianco pulsava ritmicamente. A quella monotona regolarità i suoi pensieri presero a corrergli davanti e tramutarsi in immagini, spezzoni del film della sua vita che, se fosse stato davvero un regista, avrebbe tagliato durante il montaggio finale: rivide le litigate con sua moglie e il progressivo distacco da lei, la muta disperazione dei suoi occhi ancora innamorati mentre la guardava indaffarata e lontana, rivedeva i goffi tentativi per riconquistarla, tutti falliti, e la spiacevole sensazione di vivere insieme solo per mantenere una parvenza di normalità agli occhi degli altri… e poi, rivedeva lui, il suo bambino, lo rivedeva in quel maledetto momento in cui era sfuggito ai loro sguardi, e sceso di corsa dal marciapiede, era stato falciato da una moto troppo veloce, troppo distratta, fuggita poi senza prestare aiuto. Rivide la corsa in ospedale, la disperazione dei primi momenti, il turbinio di camici bianchi e il bianco dei muri d’ospedale e delle notti passate ad aspettare che quel corpicino si svegliasse dal coma.
Talvolta è il rumore a farci addormentare e il silenzio invece a svegliarci. Quel rumore cadenzato e confortante lo cullò fino a farlo scivolare nel sonno, superando il peso enorme dei problemi che lo riguardavano e gli rendevano difficile la
vita e le giornate. Non so se hanno nome di sogni quelle immagini che corrono davanti ai nostri occhi e che sembrano non avere nulla a che fare con i nostri desideri, con le nostre speranze. Forse, anche le paure si traducono in sogni e non soltanto in incubi, quasi a volerci ingannare meglio, addolcire una pillola amara che temiamo di prendere. Fatto sta che lui sognava di essere sull’orlo di un buco nel terreno, quasi un pozzo, su cui si affacciava e di cui non vedeva, per quanto si sforzasse, il fondo. Gettò un sasso ad esplorare quell’infinita cavità, ma non sentì alcun tonfo. D’improvviso, una goccia d’acqua uscita dal pozzo lo bagnò sul viso e lui scoprì che quell’acqua era salata ma non sapeva di mare: era il sapore salso e triste delle lacrime. Seppe allora che quello era il pozzo del dolore, scavato nel cuore degli uomini dal loro stesso pianto, e quella consapevolezza fu come una frustata: avvertì una sensazione di freddo intenso, come se una mano gelata si fosse posata sul suo cuore. Ebbe un sussulto e in quel primo momento di veglia ancora nebbiosa avvertì che la macchina, la macchina che testimoniava la vita del suo bambino,aveva smesso di segnare i battiti di quel piccolo cuore. Fu proprio quel silenzio lugubre a svegliarlo del tutto: e fu allora che lo vide.
Io non so se fu con gli occhi della mente o con i suoi ancora sporchi di sogno: so che lo vide e ancora oggi lui stesso non sa spiegarsi come. Nel silenzio assoluto, il corpo del bambino sembrava un burattino abbandonato: su di lui, evanescente, una luce, un chiarore che, a guardar meglio, non era sopra di lui, ma sembrava provenire proprio dal corpicino. Non so cosa fosse e nemmeno lui lo seppe mai. Qualcuno lo definisce anima, soffio vitale, luce interiore, ma ognuno è libero di chiamarla come vuole: le cose, come gli dei o chi ne fa le veci, esistono anche se gli diamo nomi diversi. Lui rimase per un attimo a bocca aperta, incapace di emettere suoni, di fare movimenti: guardò la luce uscire dal bambino, alzarsi pian piano da lui e lentamente, lentamente muoversi verso il soffitto. Di colpo capì, o meglio, intuì la verità: quella luce era la vita del suo piccolo, la vita che usciva via da lui. In certe situazioni non serve a niente ragionare: l’intuizione è propria degli animali e dei bambini ed è più profonda della comprensione, che sempre deve sporcarla di parole per renderla razionale. Invece, lui non ragionò sul come e sul perché, ma sentì feroce e forte l’impulso a fare: così, si gettò verso la luce; l’afferrò; la strinse con le mani senza nemmeno avvertire la sorpresa di poterla toccare. In quella luce, densa e collosa, le mani affondavano come in una gelatina calda: e quel calore attraversava la pelle e raggiungeva il cuore, il suo cuore di padre. Afferrò la luce densa e calda e cominciò a tirare con tutte le sue forze, tentando di riportarla indietro, di rimetterla nel corpo di suo figlio, del suo cucciolo. Non si chiese perché: sentì che così doveva fare e cercò di farlo. Ma scoprì subito che non era affatto facile. Dall’altra parte, sentiva una forza straordinaria tirare verso l’alto, una forza che non sembrava conoscere cedimenti: anche la sua forza, però, sembrava decuplicata, e lui sentiva i muscoli resi d’acciaio dal suo amore. La cosa dall’alto tirava costantemente, lentamente, e lui rispondeva al tiro con uno sforzo immane e continuo, tanto che la luce smise di salire e si bloccò, quasi del tutto fuori dal corpo del piccolo, anzi, ecco, adesso scendeva ancora dentro il corpicino e subito dopo usciva e poi rientrava ancora un po’, in un balletto di forza e volontà. Ma le cose, negli uomini, sono imperfette: e non sempre i muscoli supportano le nostre idee. Man mano che il tempo passava, lui sentiva i muscoli irrigidirsi, sentiva l’acido lattico scendere a indolenzire le braccia, sentiva il dolore farsi largo tra le pieghe della sua mente e tentare di intaccare la sua volontà: ma lui stringeva i denti e continuava a tirare e la luce ballava sul corpo del bambino, ora tirata con più forza da lui, ora obbedendo a chi, nascosto dal buio del soffitto e dall’oscurità delle cose che aleggiano sopra gli uomini, tirava verso l’infinito.
Gli uomini, che cosa strana: le forze cedono, la volontà no; e laddove non c’è più forza, ecco che insorge la volontà a centuplicare la stretta delle sue mani, ecco sentire i muscoli che gridano di mollare e la volontà immobile che ordina di tirare ancora, in una lotta infinita che è poi la lotta eterna di tutti gli esseri umani, o forse non è altro che il loro personale inferno. Io non so se gli angeli si stancano, se anche loro sentono i propri muscoli chiedere una pausa per uno sforzo eccessivo: so che, d’improvviso, una voce risuonò perentoria nelle orecchie di quell’uomo sfinito ma non domo: «Smetti… rinuncia… questa tua ostinazione è una follia.»
«Mio figlio è solo un bambino, lascialo vivere». Rispose lui, la voce fatta a pezzi dallo sforzo immane.
L’essere diede uno strattone più forte, poi sussurrò «Abbandonati, anche la morte fa parte della natura».
Lui puntò i piedi e con tutte le sue forze riuscì a resistere a quel nuovo attacco; strinse i denti e sibilò «Non è questo l’ordine naturale delle cose, tu che porti via un bambino sei contronatura!»
Nel silenzio che seguì a lui parve che l’altro cercasse di riprendere fiato, gli sembrò di avvertire un cedimento nella sua forza infinita. Spiò nel buio, attraverso le gocce di sudore che gli imperlavano gli occhi e la vista, gli sembrò di vederlo, ombra nel buio, mentre si disponeva all’ultimo assalto. Lui pensò che doveva aggrapparsi, aggrapparsi a qualcosa per non scivolare. Non si guardò attorno per cercare funi o sporgenze; quale appiglio più forte, si disse, di un bel ricordo? Sono loro, i bei ricordi, che ci tengono in vita, che ci illuminano la strada nei periodi di buio, sono loro che ci sostengono, che ci radicano alle cose e alle persone che amiamo. Così, lui si aggrappò ai ricordi: rivide i primi sorrisi del suo bambino, i primi passi di lui, rivide gli occhi dolci di sua moglie. Quelle immagini, come tentacoli, si attaccarono ai suoi piedi e lo incollarono alla vita. Strinse ancora di più le mani attorno alla luce calda e densa, preparandosi a tirare dalla sua parte. L’essere diede ancora un paio di strattoni, poi di nuovo, in quel suo sussurrare impercettibile, disse «Non puoi capire la volontà di Dio».
Lui alzò gli occhi e il volto stravolto per lo sforzo, e quasi fosse uno spettatore esterno, si ascoltò rispondere «Forse no, ma Dio può capirmi: lui è padre, come me… Che vuoi saperne tu?»
A quelle parole, qualcosa cambiò. In modo lento ma deciso, lui sentì che la spinta dall’altra parte andava calando; pian piano, con le braccia tremanti per il dolore che sentiva, riuscì a riportare la luce all’interno del corpo del bambino, mentre l’alba veniva a rischiarare il soffitto: l’ombra non c’era più. Con i muscoli a pezzi, si guardò le mani, incredulo che fossero riuscite a tanto. Poi, si sedette sul bordo del letto, scrutando il viso del suo bambino, mentre mille domande si affacciavano nella sua testa; la risposta migliore, inequivocabile e gradita, fu il suono della macchina che annunciava la sua vittoria: il piccolo aveva ripreso a respirare. Lui sentiva le lacrime riempirgli gli occhi e il viso, la gioia fu immensa e gli occupò il cuore. Non provava più dolore, ma un incredibile senso di leggerezza. Rimase per un tempo infinito a guardare il bambino e a godersi il sollievo dato dal pulsare ritmico del cardiografo. Poi, vinto dalla stanchezza e dalla felicità, si addormentò.
Sua moglie lo trovò così, addormentato sulla sedia, la testa piegata sul petto. La donna lo guardò e lo vide diverso; poi guardò il bambino e capì che qualcosa era cambiato. Per quella strana marcia in più, quel sesto senso che hanno le donne e che consente loro di sapere senza chiedere, lei intuì tutto e sorrise. Senza che mai le fosse chiaro come, seppe che suo marito, sì suo marito, aveva salvato il loro bambino: e di questo gli sarebbe stata grata in eterno. Gli pose una mano sulla spalla e riscoprì il suo amore per quell’uomo addormentato, per quegli occhi stanchi ma tranquilli e per quelle mani che avevano sfidato le ombre e il destino. Lacrime piene di gioia e di futuro vennero a sancire quell’amore ritrovato, riattizzato come la brace ancora calda di un camino.