Io, la Irene e le altre

UNA STORIA VERA

raccontata da Romeo Vernazza

  Accosto l’auto lungo l’Aurelia. Ogni giovedì sera accompagno mia madre alla tombolata in Società, a Portovado. Seduta al mio fianco, novant’anni ben portati, tutta a posto, collanine, sciarpina e profumo, accenna a slacciarsi la cintura, si ferma e sospira: con gli anni aumenta la stanchezza.
Già, stanchezza, dolori e ricordi, i compagni di viaggio di ogni anziano che si rispetti.
– È presto, camminare mi pesa proprio. Ce ne stiamo ancora un po’ qua, in macchina, hai tempo? –
– Certo, magari parliamo. La scorsa settimana mi raccontavi della guerra, della Resistenza. Eri una staffetta partigiana, vero? L’ho scoperto solo grazie a una foto che era nel comò e non mi avevi mai mostrato. Certo che sei un bel tipo, te. –

Mia madre è sempre stata laconica sull’argomento, una forma di estrema, umile discrezione la sua. Perché non ci si vanta di cose che comunque erano da farsi, perché era giusto così.
– Bisognava farla, la Resistenza – la mamma sembra leggermi nel pensiero – perché non ne potevamo più dei fascisti. Sono nata nel 1925 e solo vent’anni dopo ho conosciuto la libertà.

Stasera è più stanca del solito e, piuttosto che fare le scale fino al circolo, preferisce parlare di quegli anni lontani. Comincia a raccontare e il suo volto si ravviva.

Io e mia sorella Irene, più piccola di due anni, stavamo con la mamma a Bergeggi (un paese sul mare, nel ponente ligure). Avevo lasciato il lavoro a servizio presso un famiglia; sai, ci lavoravo fin dai dodici anni, ma poi i padroni ripararono a Genova e io restai a casa. Dovevi vederla, la Irene, un diavolo era, vivace e intelligente, alta un palmo più di me, bruna e bellissima, faceva girare la testa ai ragazzi, mi portava in giro per mano, nonostante lei fosse la più piccola. Dopo l’otto settembre, giovani in giro se ne vedevano pochi: chi era in prigionia, chi alla macchia o nascosto in soffitta, chi era nei sanmarchi e chi era nei partigiani. C’erano le SAP, che operavano a Bergeggi, ma soprattutto nella Valle di Vado, un paese vicino dove i fascisti non si azzardavano neanche a entrare. Una fortezza partigiana era, la chiamavano la Valle Rossa.
Io, la Irene e altri giovani eravamo dalla parte dei partigiani. Facevamo riunioni, portavamo messaggi, distribuivamo volantini. Con la guerra la vita era più difficile, facevamo legna nel bosco, stavamo dietro alle bestie, ci si arrangiava come si poteva per mangiare, vestirsi e vivere. Un pomeriggio, mentre eravamo nel cortile di casa, passò un partigiano e ci regalò dei fazzoletti rossi, di tela, fatti coi paracadute degli alleati. Ce li mettemmo al collo e cominciammo a saltellare, cantando e ridendo. Mia madre arrivò con le mani nei capelli, urlandoci: “Ma siete matte! Fuori del paese c’è la caserma degli Arditi! Toglietevi subito quei mandilli!”
Gli Arditi erano i più terribili, quando arrivavano loro bisognava stare molto attenti a quello che dicevi e facevi.
Io, la Irene e le altre giravamo di notte per il paese, a distribuire i volantini antifascisti. Lo sai, Bergeggi è tutto una riva, dal monte fino al mare, su tutti quei sentieri e scalinate ci facevamo di quelle corse!

– Eravate proprio matte… –
– Si vedeva che ormai il fascismo era una cosa vecchia. Noi invece eravamo giovani e i giovani, si sa, sono pieni di belle speranze. Ne abbiamo corsi di rischi, come quando la Irene costrinse un milite a disertare. –
– Cioè? –
– Dopo una riunione con i partigiani, mia sorella decise che doveva fare qualcosa di concreto. Così, da sola, con il suo vestito più bello, scese giù fino all’Aurelia, che costeggiava il mare. Si appoggiò al muretto, capelli neri al vento. A un certo punto, dalla parte del faro, arrivò un militare in bicicletta. Gli occhi spavaldi della Irene si incrociarono con i suoi, il milite le passò davanti, ma poi si fermò e tornò indietro. I due giovani cominciarono a parlare del più e del meno, lei era amichevole e sorrideva, lui si sentiva lusingato e riuscì a strapparle, almeno così credeva, un appuntamento per la sera. Era un giovane sergente dell’artiglieria e arrivò puntuale, quella sera, in paese. Trovò la Irene, che gli presentò altri giovani. Tutti insieme andarono a casa di un partigiano, a bere e chiacchierare. Quando venne l’ora di accomiatarsi, i ragazzi dissero al sergente, senza mezzi termini, che erano partigiani, lui era un nemico e quindi non potevano più lasciarlo andare. Doveva entrare nella Resistenza, non aveva altra scelta. –
– Fu convinto ad arruolarsi, quindi… –
– Sì, altrimenti l’avrebbero tenuto prigioniero per un po’, non avrebbe più potuto tornare in caserma perché disertore. –
– Che fine fece quel soldato? –
– Oh, fu un bravo partigiano, nel basso Piemonte, lui era di lì, così era anche vicino a casa. Dopo la guerra tornò spesso qui a Bergeggi, in vacanza con la famiglia. Ma non rivide mai più la Irene, – mia madre si ferma e scuote la testa, so perché – poverina, morì che aveva poco più di vent’anni, per un tumore. Qualche anno dopo probabilmente l’avrebbero guarita. –
– Certo che ne avete combinate, tu e tua sorella! –
– Ah, ma non sai di quando siamo andate a far arrendere i sanmarchi… –
– Cosa accidenti avete fatto? –
– Ora ti racconto. –

Erano gli ultimi giorni di guerra, c’era la smobilitazione generale, fin da Ventimiglia code di carri armati e camion tedeschi attraversavano l’Aurelia e prendevano la via del nord. A Zinola, vicino a Savona, c’era rimasta una guarnigione di sanmarchi, una ventina di soldati. Bisognava farli arrendere, perché sbarravano l’accesso al capoluogo. Così, d’accordo coi partigiani, io, la Irene e la Celestina durante il giorno ci nascondemmo nella chiesa di Zinola, ad aspettare. La sera (c’era il coprifuoco, se ti trovavano per strada ti sparavano) uscimmo e andammo alla caserma. Raccontammo ai militi che i partigiani ci avevano costrette (qui mia madre ride) ad andare a parlare con loro, perché si arrendessero consegnandosi alle forze della Resistenza, che li stavano aspettando nella piazza di Vado.

– Avevate paura? –
– Ci credo! Tremavamo dalla paura, ma così eravamo anche più credibili. –

Per fortuna decisero di arrendersi. Mezz’ora dopo partimmo, tutti i sanmarchi e noi insieme a loro, su due autocarri, e arrivammo a Vado, in una piazza piena di gente e di partigiani ad attenderci, tra urla e applausi. Fu un momento emozionante.

– Sei un bel tipo, tu. Se non ti avessi sollecitato di brutto, io e Claudio (mio fratello) non avremmo mai  conosciuto questi episodi della tua vita, roba da matti! –
Lei scrolla le spalle e sorride, bisogna quasi andare, la tombola incombe, c’è tempo solo per un accenno al dopoguerra.
– Ci volle tempo per mettersi a posto. Ci fu il referendum. Facemmo tanta propaganda per la Repubblica. Le donne votavano per la prima volta. E votai anch’io, appena compiuti ventuno anni, pensa! Andai a lavorare in una fabbrica di refrattari. Tante donne eravamo, lì dentro. Dovevamo tirare su dodici tonnellate di mattoni per turno. Ricordo che il caporeparto, uno del sud, vedendomi così magra, esclamò: “Chilla qua non dura una settimana”. Dieci anni ci ho lavorato, in quel reparto! E ci pagavano il quaranta per cento in meno degli uomini! –

Mi sa che è ora, mi accompagni fin dentro?

Ci avviamo, la tengo a braccetto, entriamo in sala, vuole sempre un bacio prima di salutarmi, poi si avvia incerta, lentamente al suo posto, salutata calorosamente da alcune amiche.
La guardo e la immagino settant’anni fa, una ragazza che sgambetta veloce su e giù per i viottoli del paese con in mano un pacco di manifesti proibiti.