Compagni di merendine

di Romeo Vernazza

Annuisco, mentre trascrivo dal libro di CP, che c’è qualcosa di più triste che invecchiare, ed è rimanere bambini. Fantasmi di bambini animano la mia sera. Ascoltano incuranti il suono della campanella, non vogliono saperne di rientrare in classe. Sono uno di loro. Mi passano davanti e mi salutano. Sorrisi di scherno innocente, manine che fanno ciao. Gli anni delle elementari, un vortice di esperienze abbozzate, piccole vite di futuri uomini e donne. Una galleria di volti dipinti con la vernice del tempo. Li vedo ancora com’erano allora, come se avessero rubato loro per sempre l’ormone della crescita; sono strani ologrammi generati da macchine avanzate. Se chiudo gli occhi li vedo e parlo con loro.

1.    Toni P.
Cattivello e ruffianamente infido. Il preferito del maestro. Magro, dinoccolato e con piccoli riccioli dietro le orecchie. Un torbido cortigiano smunto. Era inquietante, seduto al suo banco, unico e isolato a fianco della cattedra, lontano anni luce dagli altri banchi, dov’eravamo noi, paria intoccabili. Invidioso dei bambini più sportivi ed esuberanti, mangiava le merendine con studiata lentezza, per poterle poi ostentare tronfio ai voraci astinenti. Le ultime voci lo davano impiegato all’ufficio del registro, in perenne attesa di un qualche avanzamento di carriera. Non si è mai sposato.

2.    Miki Z.
Figlio di negozianti, capelli rossicci e denti da roditore. Era uno dei meglio vestiti all’epoca, nonostante i pantaloni corti e le ginocchia prammaticamente sporche di terra. Aveva più soldi e mezzi della restante orda proletaria della classe. Cominciava già allora a esercitarsi nella sua verve commerciale. Riusciva a raccogliere le figurine più rare, che puntualmente scambiava con quintali di figurine doppie e comuni, spacciandole successivamente per rare e introvabili. Non continuò gli studi, chiudendosi a doppia mandata nella bottega dei genitori. Usciva sulla soglia solo per fumarsi una sigaretta, con l’alibi di controllare i manichini in vetrina. Anni dopo mi telefonò, dopo un medioevo e un rinascimento di silenzio reciproco, cercando di appiopparmi la quota di una stramba vendita piramidale.

3.    Gerry D.
Robusto e senza collo, aveva sopracciglia a siepe inglese. Di una classe più grande, un giorno, durante l’intervallo, si avvicinò con fare furtivo domandando a bruciapelo a noi piccoli astanti, intenti a giocare a rialzo, se sapessimo come nascono i bambini, con la retorica sicumera dell’unico depositario della risposta esatta. Allo stupito e incuriosito silenzio generale rispose con una gestualità da adulto frequentatore di bar. Il dito indice della mano destra  che si strofinava avanti e indietro dentro l’indice e il pollice sinistri, piegati vaginalmente a cerchio. E così, strofinando e ammiccando, se ne andò in classe, lasciandoci sbigottiti sul posto. Il cortile, con i suoi muri intonacati e rassicuranti, aveva assistito alla scena, continuando ad avvolgerci, benevolmente sollevato della nostra immane ignoranza.

4.    Stefano O.
Magro, con la testa grossa, figlio di madre sola e padre irreperibile. Tutti sapevano della cosa, eccetto lui, che continuava a ignorare la sottile ironia degli sguardi dei bambini, raccontando di un padre immaginario, sempre in viaggio per lavoro, che sarebbe tornato di lì a poco con strepitosi regali costosi. La madre si ammazzava di fatica con lavori sartoriali per le famiglie operaie dei dintorni. Serva di servi. Stefano navigò mediocremente negli anni scolastici fino alle medie. Dopo frequentò di malavoglia una scuola professionale, passando intere giornate a limare e misurare pezzi di ferro. Lo accolsero poi lavori saltuari e vino da due soldi. Lo vidi per molto tempo davanti a un bar triste (l’unico rimasto in zona con il biliardo) stazionare nella sua vita persa. Sigaretta accesa, panza prominente e sguardo spento nel vuoto, forse ancora in attesa del papà e dei suoi magnifici regali.

5.    Cecilia E.
Delicata e piena di fiocchetti in testa come un moderno yorkshire. Era molto silenziosa e stava spesso appartata. La sua amica del cuore era Ina, che sembrava il suo clone al cubo, ma senza fiocchetti. Non si separavano neanche per andare in bagno. Sempre spolverandosi il grembiulino, sempre tenendosi per mano. Cecilia è morta di overdose nei primi anni ’80, sola, in una vecchia fabbrica abbandonata, con un ultimo fiocchetto emostatico al braccio. Ina diventò col tempo una donna obesa di mezza età. La ricordo così: parlava sempre concitatamente, non conosceva l’omeopatia ma ne faceva largo uso, vestiva Cavalli e lavorava in una agenzia di pubbliche relazioni. Si è persa nelle nebbie dei dintorni di Milano.

6.    Oscar D.
L’unico ciccione della classe. Allora una rarità. Un pesce palla in mezzo a insetti stecco e sardine smilze. La sua pingue silhouette non era ancora merito degli snack ai trigliceridi, che avrebbero dominato di lì a poco; era piuttosto imputabile alla pessima abitudine dei genitori di considerare ogni pasto un pranzo di nozze. Oscar era ovviamente il tondo, voluminoso bersaglio del resto della classe. Ogni scherzo più truce, ogni parola più offensiva erano per lui, che subiva, con tristi occhi da agnello pasquale, la terribile, infantile legge non scritta del dagli al diverso. In una gita campestre venne spinto giù in una scarpata piena di rovi. Il suo ripescaggio dal letto di spine costò graffi e bestemmie agli accompagnatori adulti presenti sul posto. Ne uscì come sempre, con grandi ferite, dentro e fuori, e con lunghi singhiozzi soffocati. Col tempo Oscar il grasso divenne anche grosso, e così ebbe finalmente più tregua. I suoi occhi acquosi però mantennero sempre quell’aria malinconica e rinunciataria. Finite le medie i suoi decidettero di emigrare in Australia. Oscar accettò la decisione con pacata rassegnazione. Il giorno prima della partenza ci trovammo per il commiato in pizzeria. Tutto sommato sembrava contento di andare. Fabio, che lo aveva gettato nelle spine qualche anno prima, lo abbracciò con trasporto. Dopo qualche battuta scontata sui canguri, Oscar salì sul motorino, salutò e attraversò alcuni oceani.

7.    Magda O.
Era una vera dark child. Con i suoi occhi cerchiati e la magrezza di un uccellino malato avrebbe potuto tranquillamente fuoriuscire dal Gabinetto del Dottor Caligari. La sua aria catatonica e l’epidermide dal colorito grigio-verdognolo, simile al banco, la risparmiarono dai seccanti adempimenti scolastici. Con l’adolescenza, la piccola Magda, divenne una morticia locale, con pizzi, unghie smaltate di nero e anfibi ai piedi. Intorno ai vent’anni partì per Londra con l’intenzione di fare la cameriera di giorno e la chitarrista di notte. Tornò a casa anni dopo, stanca, intossicata e appesantita dalla dieta britannica. Si impiegò nella società del gas, buttando alle ortiche il suo fluente inglese e i mantelli di Bela Lugosi. Ancora ora, ogni tanto, il suo tatuaggio, un teschio con serpenti, occhieggia sotto il risvolto della manica, saluta il pubblico in fila per le bollette e poi ritorna a nanna.

8.   Fabio V.
Capelli ricci, occhi nerissimi e genetica predisposizione all’insubordinazione e al bullismo. In un terribile litigio che ebbi con lui nel cortile della scuola innescammo una mostruosa tempesta di pietre e ghiaia, coinvolgendo più di trenta mocciosi in una rissa da saloon in piena regola.  Il maestro e i bidelli riuscirono dopo un bel po’ a bloccare il pericoloso e indiscriminato lancio di scisti e micascisti contro bimbi e micabimbi. Seguì la rappresaglia. Tutti in fila nel cortile, immobili sull’attenti, squadrati dal truce sguardo del maestro sergente di ferro. Il suo anatema fu questo: o i responsabili del casino fanno un passo avanti, oppure nota per tutti. Ricordo che io e Fabio ci guardammo con complice apprensione, sbirciando tutti gli altri, scoprendo con sollievo che il bailamme generale aveva steso una coltre di oblio su chi aveva effettivamente scagliato la prima pietra. Restammo quindi tutti fermi, tutti zitti, tutti rei. La pena venne ripartita tra tutti, diventando più leggera e sopportabile. Come epilogo a effetto, il maestro esortò gli oscuri colpevoli, guardandoci negli occhi uno per uno, con la sua faccia paonazza e le vene del collo gonfie, a rivelarsi, prima o poi, un anno o l’altro. Fabio è morto tanti anni fa, nel pieno dei suoi trent’anni, lavorando in una cava di ghiaia, lasciando una moglie e un figlio.

9.   Bruno A.
Un persuasore occulto. Era riuscito a farmi credere che teneva un pony sul terrazzino di casa. Aveva una particolare astuzia nel restare ai margini di ogni evento, senza coinvolgimenti personali. Aveva già maturato la tipica diffidenza contadina, che porta a sospettare di tutto e di tutti, anche di una bellissima giornata di sole, perché potrebbe virare improvvisamente verso la grandine o maturare in siccità. Fu per questo che quando si accorse che gli avevo venduto una penna stilografica che sapevo difettosa (la vendetta del pony immaginario), mi sibilò che me l’avrebbe fatta pagare, prima o poi. Dopo le medie non lo rividi mai più. Non dovrei più ritrovarmelo a tendermi un agguato nel buio androne del mio condominio.

10.    Ester B.
Una piccola bambina fasciata da un grembiulino nero di lucido nylon, con guarnizione di occhiali e orecchini dorati. La sua voce: un sibilo sottile, tenue e riluttante. Si materializzava nell’aula unicamente per svolgere doveri scolastici o per chiedere di andare in bagno. Figlia di testimoni di Geova, era già un soldatino arruolato nell’attesa del giudizio universale. Fatto che aveva creato all’interno della scuola uno steccato, un apartheid di generalizzata diffidenza che lei aveva diligentemente accettato. La rividi qualche volta fuori dal tempio, sempre insieme a persone con almeno vent’anni di fede più di lei. Un giorno, di mattina presto, mi suonò alla porta, un po’ imbarazzata e con un pacco di Svegliatevi! sottobraccio. La vidi dallo spioncino della porta, non aprii e tornai a dormire.