Ogni giorno alla stessa ora

di LaicaMente

Era piccola e la sua pelle tutta stropicciata. Aveva la testa fasciata in quel fazzoletto nero e molti si chiedevano se lo togliesse almeno in casa, a memoria d’uomo nessuno l’aveva vista senza.
 Camminava coi suoi passettini tremolanti e percorreva sempre la stessa strada, ogni giorno, stessa ora, trecentosessantacinque giorni l’anno, pioggia, neve e sereno, era sempre lì, quasi una certezza.
Teneva strette strette tra le mani delle carte, o così apparivano da lontano, perché nessuno, a parte un veloce saluto, si sentiva di disturbarla in questo suo rito, così lontano e ormai così familiare.
Entrava nel piccolo cimitero, uno sguardo alla statua della madonna, come da madre a madre, come a dire “tu sai…” e tirava dritta. Nessun gesto religioso, lei era comunista, ma un cenno di chi sa cosa vuol dire essere lì e cosa, in qualche modo, potrebbe rappresentare quella statua per molte donne come lei.
Lei. Tina, si chiamava. – Come Tina Modotti – diceva lei.
Tina che aveva visto lo schifo della guerra, Tina che aveva perso quell’unico e adorato figlio. Tina che non si era arresa, che aveva camminato a testa alta, nonostante quell’adorato figlio fosse rimasto poco più di un ragazzino, in quella foto ingiallita che ricordava una gita, forse l’unica, in montagna. Tina che era diventata vecchia ed era sopravvissuta a suo figlio Bruno, tanto bello, con gli occhi neri di papà e il sorriso del nonno, dal quale aveva ereditato il nome.
Ogni giorno il suo rituale iniziava in casa. Si alzava, si lavava e si vestiva. Rigorosamente di nero, da più di cinquant’anni, da quando la sua vita era finita. Il nero come segno di lutto, il nero come punizione perpetua per essere sopravvissuta a Bruno.
Si vestiva, si sedeva vicino alla finestra, vicino a un carrellino portavivande (il tavolo, ormai, era troppo grande e troppo vuoto per lei sola) e mangiava un po’ di latte e tre biscotti, poi sistemava un po’ casa, anche se non c’era molto da fare e andava.
Andava al cimitero, sempre con lo stesso fuoco che la spingeva i primi periodi della morte di Bruno, quel figlio senza padre. O meglio, Bruno aveva un padre e a dire di Tina era anche tanto bello, proprio come il figlio, ma nessuno sapeva chi fosse, a parte lei, naturalmente.
Andava lì, lucidava la foto, cambiava l’acqua ai fiori e sussurrava qualcosa con un filo di voce, in modo che solo il figlio potesse sentire.
Che vita dura Tina, vissuta in un’epoca in cui non si poteva essere madre senza prima essere moglie. Era stata buttata fuori di casa, quando i suoi seppero della gravidanza, e dichiarata morta dal padre, che da allora non volle più saperne, della figlia e del nipote, nonostante portasse il suo nome. Nonostante tutto questo, era orgogliosa di quel figlio che aspettava e niente la spaventava, sapeva che ce l’avrebbe fatta e nessuno si sarebbe potuto permettere di toccare suo figlio, anche se non aveva fatto i conti con la morte…
Bruno morì in un bel giorno di primavera, per una morte assurda, come solo quelle dei ragazzi possono essere. Cadde da un albero di ulivo e si ruppe l’osso del collo. Non morì subito, ma i ragazzi che giocavano con lui scapparono lasciandolo a terra agonizzante e solo dopo molte ore lo trovò la madre, vagando per il paese, non vedendolo rientrare a casa. Le si squarciò il petto quando lo vide lì, con gli occhi che fissavano il nulla e il respiro spezzato. Quella postura da uccellino caduto dal nido, quella testa storta che agli occhi della madre era stata la sentenza di morte . Neanche lei respirava, le sembrò di morire, di diventare di pietra, di non potere reagire. Le gambe erano diventate marmo. Non sapeva cosa fare, con chi prendersela e dove andare e non le rimase altro che accovacciarsi accanto a lui e piangere. Era freddo Bruno ma era bello, quegli occhi neri fissavano il cielo, guardavano oltre, guardavano quel futuro da dottore che Tina tanto sperava per lui e che ormai non c’era. Non c’era la colazione al mattino e non c’era la radio accesa per ascoltare Sanremo. Niente c’era ormai. Il buio, il vuoto e il gelo. Quel freddo che ti blocca lo stomaco e non ti fa ragionare. Solo ogni tanto tornava in sé, Tina, e piangeva. Piangeva fino a non avere più lacrime, fino a non riuscire a tenere più gli occhi aperti, fino a crollare in un disperato sonno.
Tina morì dentro quel giorno e sopravvisse fuori. Si può essere morti dentro e vivere nonostante tutto? Se l’era chiesto molte volte, senza risposta. Cosa può rispondersi chi ha perso la sua unica ragione di vita e non trova il coraggio di terminare la sua? Niente. E niente si rispose per tantissimi anni. L’unica sua consolazione era l’attesa. Attesa che ci pensasse il tempo a fare quel lavoro che lei non riusciva. E quel tempo arrivò in un bel giorno di gennaio, in cui il cielo era pulito e l’aria secca e fredda. E arrivò senza clamore. Semplicemente, Tina, il suo ultimo percorso verso Bruno, andò a farlo col carro funebre. Col suo fazzoletto nero e le sue carte strette strette tra le mani.