Estratto dal libro Cenerentola ascolta i Joy Division – di Romeo Vernazza, Tempesta Editore

Stop. Devo comprare qualcosa da mangiare. Shopping di roba pronta, minimal, acque zuccherose e barrette energetiche, nient’altro. Sono uscita fuori d’improvviso, vestita leggera, così mi tocca sgambettare rannicchiata e tremante, già pentita per l’ardita escursione urbana. Il freddo dell’inverno sta facendo il suo lavoro, e dopo aver martellato per tutto il giorno un pallido sole, come un pugile suonato in un angolo grigio di cielo, si appresta a invadere la notte. L’intera volta celeste sembra stendersi su di me, come un plaid di pile appiccicoso, mentre cammino con passo veloce all’angolo tra la piazza della stazione e l’area pedonale di Via Gramsci. E’ una triste radura lastricata di pietra grigia, punteggiata da stampi di chewing gum nerastri e contornata da lampioni con globi ingialliti, già accesi nonostante sia ancora giorno. Spazi urbani che annettono le storie individuali che casualmente vi transitano, le spingono nei luoghi del ritrovo, con insegne colorate e luci soffuse, cercando di amalgamarle, oppure le sputacchiano lungo la strada. Ma esse restano quel che sono, vagando senza sosta né pace, o sorseggiando alcool e caffè con quattro amici al bar.
E niente, proseguo oltre, rispondendo a sorrisi di circostanza  di qualcuno che per me conta zero, incrociando due corpulente badanti ecuadoregne. Ostruiscono senza ritegno l’ingresso del supermercato con la loro massa e voluminose borse della spesa. Passando tra loro, è come penetrare una nuvola di sudore intenso e minestroni per vecchi malati. Afferro appena uno spezzone del loro dialogo concitato «Oye pana, que pasa por la calle? Nada, no pasa nada» e attraverso le porte scorrevoli, salutata da un caldo soffione boracifero sul collo.
Ogni qualvolta mi addentro nell’universo dei codici a barre, lo faccio in apnea e con eroica fretta. Per scongiurare il rischio di entrarvi con l’intenzione di acquistare un reggiseno push up e uscirne 83 minuti dopo con una kenzia ornamentale. Ma questa volta ho idee chiare e poca voglia di indulgere nella malinconia della merce. La mia già basta e avanza.
Devo prendere pochi alimenti, un piccolo kit di sopravvivenza settimanale, niente roba gourmet, vini barricati e pecorini di fossa. Ma non posso dimenticare i rischi sociali legati alla frequentazione di questi posti.
Quando ci si addentra tra la folla del centro commerciale si ha lo stesso problema dell’ebreo del ghetto quando va in sinagoga. Trovi tutti lì, a comprare la bresaola. E la possibilità di incontri indesiderati è ‘n’ multipla di quelli desiderati. E comunque di solito non vorrei vedere un cazzo di nessuno. E’ imbarazzante, ma capita che, per evitare lo stronzo di turno con cui in passato ho condiviso mio malgrado qualcosa, mi tocchi studiare con finta attenzione e per diversi minuti la vetrina dei trapani con avvitatore. Mi alleno nel mimetismo scaffalistico, e stavolta mi va bene, mi aggiro velocemente come uno spettro anonimo nei corridoi del castello alimentare, con il cestello di plastica rosso sotto il braccio, molto più agile delle famiglie camioniste col carrello, scegliendo merci con lucida parsimonia e avviandomi come un turbine alla cassa rapida. Lì, svogliata e stanca, attendo il mio turno sotto la potente luce livida, sparata da grandi lampade a pera nascoste tra le pieghe del soffitto grigliato. E’ un raggio malvagio, che toglie ogni ombra di vita ai volti, rendendo tristi e squallide anche le facce più giovani e graziose, livellando democraticamente ogni personaggio al semplice ruolo di standard consumer.
Evitando di fissare accuratamente le nuche di chi mi precede per timore di trovarvi nuove forme di vita, contemplo lo spettacolo delle merci abbandonate all’ultimo momento, un vero e proprio angolo del pentimento, unico gesto autonomo concesso al cittadino del foro commerciale. Vicino alle casse, dove comincia il nastro mobile e inizia a organizzarsi la coda, vi sono scaffali strategicamente colmi di prodotti “Oh cazzo!” questo sì che potrebbe servirmi, un giorno o l’altro: lamette da barba, zafferano, zucchero vanigliato, pile ricaricabili, dolcificanti schifocalorici.
Più sotto, ad altezza moccioso, ci sono invece patatine Ninja, miniconi gelato, robi plasticosi e mostri guerrieri. E’ in questo ammaliante lido delle sirene che si consuma una larvata vendetta post consumista. Gli scaffali diventano luogo deputato per l’abbandono di merce prima della cassa, per improvvise esigenze contabili o per sincero ravvedimento umano.
In passato ci divertivamo a fare il censimento dei prodotti abbandonati last minute, ma ora sono stanca e non ho più nessuno con cui esercitarmi in allegre forme di snobismo sociale.
Noto solo, e mi inquieta nel profondo, una confezione di vongole surgelate, sgusciate e pronte, una specie di mattone di ghiaccio trasparente, condannato a sciogliersi lentamente, tra le gomme da masticare sugar free. Il contenuto è orribile a vedersi, una moltitudine di piccoli feti compressi e agghiacciati. E penso, chissà se a fine giornata il commesso li butterà o li rimetterà bellamente nello scomparto surgelati, a ricongelarsi con il loro carico di sfiga tossica… Aiuto.