Arrivo in ritardo

un racconto di Romeo Vernazza

 La casa di Bruno era una villetta a due piani con intorno un modesto giardino e un piccolo orto. Era uno dei tanti edifici unifamiliari costruiti negli anni Settanta nella zona di espansione della città. Spigolosa, con alcune facciate rivestite in pietra e un ampio cornicione, non era la solita villetta a schiera, e non aveva nulla da spartire con gli scatoloni popolari che erano spuntati lungo la provinciale. Il panorama sul retro di casa era la parte di vallata non ancora urbanizzata, con fitti boschi di castagno sfrangiati a tratti da ampie zone coltivate.

   Nelle ventose notti invernali le fronde degli alberi ondeggiavano frustandosi a vicenda. Quando sua madre dormiva, Bruno sgattaiolava spesso fuori, sotto la loggia d’ingresso. Restava in piedi per ore, ascoltando il sibilo del vento misto al fruscio del bosco, cercando di immaginare il terribile sforzo delle radici avvinghiate nel sottosuolo per impedire agli alberi di volare via.

   Anche quella notte era lì, ma non c’era tempo per contemplare la natura e i suoi eventi, perché sua madre era morta, da appena un’ora. E Bruno, per la prima volta in quarant’anni di vita, in mezzo al trambusto e al via vai di gente intorno a lui, era davvero solo.

Pronto? Dottor Rozzi, la mamma è morta. Sì, sono sicuro, non respira. Eh? Come? E’ caduta giù dalle scale.

   Mezz’ora dopo si era già radunata in casa una piccola folla di astanti. Alcuni per esercitarsi nel buon vicinato, altri per un cenno di vita, per una inaspettata ventata di trascendenza. Ma nonostante il brusio delle comari, il dottore, il prete, le pompe funebri, lui restava fuori, a sperimentare quella nuova solitudine.

   Bruno era nato e cresciuto in quella casa, con la mamma. Niente papà. Era morto prima che lui nascesse, questa era la versione ufficiale. Conobbe la verità in seguito, spiando il chiacchiericcio delle vicine: è scappato senza sposarla, una donna insopportabile, la Assunta.

   Già, sua madre aveva cresciuto il figlio della colpa con la corona di spine dell’abbandono e l’assenza della figura paterna fu compensata dalla ridondante presenza di immagini sacre e cristi in croce. Donna Assunta era timorata di Dio fino allo spasimo, una talebana ante litteram che aveva dedicato la vita a purificare la sua colpa scaricando la nevrosi sul piccolo Bruno, con preghiere, visite a tristi santuari di santi, rimproveri, punizioni e richiami alla puntualità.

   In casa niente giocattoli pagani, soldatini o pistole di plastica, a parte le sue amate e inseparabili biglie di vetro. La sua infanzia scivolò via dominata dall’unico gioco ufficialmente approvato, sano e istruttivo. Scimmiottare il parroco che dice messa, sul terrazzo, davanti a un altare di cartone, salutato dagli sguardi sbigottiti dei passanti.

   La scuola fece di lui un solitario alieno venuto da un’altra galassia, non appena la curiosità dei compagni si trasformò in scherno. E diventò un uomo fatto di materia inerte, un adulto preservato dai mali del mondo, lo stadio mentale di un quindicenne, pronto per accedere alle categorie protette.

   Il vaglio spietato delle amicizie, soprattutto quelle femminili, il lavoro di fattorino, umile e quindi dignitoso, ma soprattutto vicino a casa, tutto era stato deciso dal dispotismo di mamma.

Va bene, mamma. Scusa, mamma. Torno in orario, mamma.

   Fino al mese prima, fino a Sandra, la nuova segretaria dell’ufficio spedizioni, una donna sola e, orrore, divorziata. Aveva involontariamente acceso in lui un immenso amore maldestro, che trovò al solito pane per i suoi denti. Quando raccontò alla mamma del suo sentimento e dell’intenzione di manifestarlo a Sandra, lei agì come ogni volta che gli ormoni di Bruno lo avevano reso incline al male.
Lo confinò in casa, motivazione ufficiale: esaurimento nervoso. Ma stavolta per Bruno fu diverso, perché il suo era amore vero, ne era certo, e quella prigionia era davvero ingiusta e insopportabile. Sì, davvero ingiusta. Lo aveva urlato forte per quasi un’ora, chiuso dentro la sua camera, quasi stupendosi del rimbombo della sua voce così minacciosa e autoritaria.

   Entra, Bruno, fa freddo fuori. Vieni a salutare la mamma, è sul letto ora, sembra stia dormendo. Povera donna, che disgrazia, cadere giù dalle scale e rompersi l’osso del collo! Un malore o forse è scivolata. Lei ora è lassù, in cielo, insieme agli angeli, e ti aspetta.

   Bruno si avviò lungo l’atrio e salì in fretta le scale. Sul pianerottolo vide qualcosa brillare sotto il mobiletto agghindato con immagini sacre, si chinò, raccolse una delle sue biglie di vetro e con fare distratto se la mise in tasca, insieme alle altre. Poi si fece largo tra la gente fino al letto dove giaceva la salma. Riuscì solo a dire una frase, prima di cominciare a piangere.

 Arrivo in ritardo, mamma.